Il giocatore dei Memphis Grizzlies ammette che all'interno del fronte dei giocatori la volontà comune di giocare non si riflette in maniera altrettanto compatta su un'altra serie di temi: "La bolla, il lockdown, la possibile esposizione al virus: non mi sento sicuro", dice
Si può tranquillamente aggiungere il nome di Justise Winslow tra quello dei giocatori piuttosto scettici sulle condizioni con cui la NBA tornerà in campo a fine luglio. Un giorno dopo aver pubblicato una Instagram story — con tag alla @nba e alla @nbpa — piuttosto critico (“Non si tratta più di basket o di sicurezza, ormai. Contano solo i soldi. Non sono sicuro che gli interessi realmente se dovessimo contrarre il coronavirus”), Winslow è tornato sull’argomento nel corso di una discussione online con Caron Butler, ospite dell’account Twitter della NBA stessa: “La bolla è insidiosa. Da un punto di vista medico non credo sia una grande idea avere tutte queste persone in un unico spazio, perché va contro l’idea stessa di distanziamento sociale. E poi ci saranno gli impiegati di Disney World, che a fine giornata usciranno dalla bolla per andare a casa, vedere le loro famiglie e fare quello che devono fare prima di rientrarci il giorno dopo. Certo, verremmo testati in continuazione, ma alla fine non c’è ancora una cura contro questo virus. E le persone continuano ad ammalarsi. Non mi sento al sicuro”, ha concluso il giocatore dei Memphis Grizzlies, chiamati a difendere a Orlando la loro testa di serie n°8 a Ovest. “So che la NBA sta affrontando la cosa molto seriamente ma allo stesso tempo mi chiedo se ne valga davvero la pena. Seriamente: c’è gente che ha famiglia, alcuni di noi aspettano dei figli, ci sono i giocatori internazionali a cui viene chiesto di lasciare le loro famiglie e non rivederle per mesi. Mi sembra che ci sia ancora tanto da decidere”.
Dentro l’associazione giocatori: d’accordo sì, ma non su tutto
La decisione — fronte giocatori — sembrava essere arrivata, compatta e avallata dalla NBPA, la National Basketball Players Association — la scorsa settimana, ma poi all’interno del gruppo si sono iniziate a manifestare voci dissidenti, la più vocale di tutte quella di Kyrie Irving: “È vero, come giocatori abbiamo dato il nostro ok al ritorno in campo — ammette Winslow — ma non necessariamente a un ritorno confinato in una bolla, in una sorta di lockdown, senza le nostre famiglie, esposti al virus per la presenza di tutti questi impiegati liberi di entrare e uscire dalla bolla stessa. Su tutti questi aspetti non eravamo tutti d’accordo: lo eravamo sul voler giocare. Poi sta alla NBA trovare la miglior soluzione possibile. C’è ancora troppa incertezza: da un lato amo la competizione, sono un giocatore, voglio giocare e voglio i miei soldi, che mi spettano; dall’altro non so è tornare in campo ora sia la cosa più intelligente da fare. Voglio continuare a combattere l’ingiustizia sociale, e non so se la ripresa del campionato finirà per essere una distrazione o possa invece aiutarci ad avere una piattaforma da cui far sentire la nostra voce ancora migliore. Di certo non saremo in prima linea, non saremo nelle nostre comunità ma isolati in una bolla, e a essere completamente onesti resto incerto su questa idea”, conclude Winslow.