
Un anno senza Kobe Bryant: tutte le tappe della carriera del Black Mamba. FOTO
Una carriera come pochissime nella storia della pallacanestro: cinque titoli NBA, due premi di MVP delle Finali, uno della regular season e una sequenza di ricordi indelebili nelle memorie di tutti gli appassionati. Ripercorriamola passo dopo passo, a un anno di distanza dalla sua tragica scomparsa a seguito di un incidente in elicottero che ha portato via anche sua figlia Gianna e altri sette passeggeri

LA LEGGENDA DI KOBE BRYANT | 41 anni, quasi la metà dedicati a una sola maglia in NBA e un'influenza che non ha eguali. La storia di Kobe Bryant è un lungo viaggio che parte da Philadelphia e passa dall’Italia prima di arrivare a Los Angeles, dove si consacra alla storia

GLI ANNI IN ITALIA | Figlio di Joe Bryant, cestista che per molti anni ha giocato in Italia, dal 1984 al 1991 Kobe si sposta assieme alla famiglia da Rieti a Reggio Calabria, da Pistoia a Reggio Emilia, iniziando proprio in Italia a giocare le sue prime partite di basket. E innamorandosi al tempo stesso del nostro Paese, nel quale sarebbe ritornato sempre con enorme piacere negli anni a venire.

LA FAMIGLIA | Papà Jelly Bean e mamma Pam, qui in un’altra foto “italiana” con un Kobe ancora bambino. Il rapporto tra i genitori e la superstar dei Lakers si sarebbe fatto più complicato, con i primi contrari al matrimonio del figlio (solo 23enne) con la 19enne Vanessa Laine e poi a lungo estraniati dalla sua vita per decisione dello stesso Kobe

GLI ANNI DELL’HIGH SCHOOL | Kobe Bryant inizia a mettersi in luce alla Lower Marion High School, nell’area di Philadelphia, dopo essere rientrato a 13 anni negli States per seguire suo padre Jelly Bean. I suoi 2.883 punti in quattro anni sono più di quelli realizzati da Wilt Chamberlain nel periodo da liceale (anche lui cresciuto a Philadelphia), rendendolo uno dei prospetti più interessanti d’America prima ancora di compiere 18 anni

NIENTE COLLEGE, SUBITO IN NBA | “Ho deciso di non andare al college e di portare i miei talenti direttamente in NBA”. La frase pronunciata nella primavera del 1996 è una di quelle che hanno poi segnato la carriera di Bryant, già molto sicuro di sé anche appena maggiorenne. Parole poi riprese 14 anni dopo da LeBron James durante l’annuncio della sua ‘Decision’: “I'm going to take my talents to South Beach”

LA SCELTA AL DRAFT | Il 26 giugno 1996, in quello che da molti è considerato uno dei Draft con a disposizione il maggior numero di talenti (Allen Iverson, Ray Allen, Steve Nash, solo per citarne alcuni). Con la 13^ scelta assoluta gli Charlotte Hornets selezionano Kobe Bryant: il tempo di indossare il cappellino della squadra del North Carolina, stringere la mano di David Stern e il suo destino prende subito la direzione della California.

IL PASSAGGIO AI LAKERS | I Lakers, nella persona di Jerry West, si erano infatti innamorati di lui durante i provini che avevano preceduto il Draft. A quel punto, avendo messo sotto contratto Shaquille O’Neal in arrivo dagli Orlando Magic, i gialloviola erano disposti a cedere Vlade Divac in cambio della giovane promessa. Una decisione che, con il senno di poi, si rivelò più che azzeccata, ma che al tempo risultava azzardata: mai una guardia liceale era stata scelta così in alto al Draft.

IL DIFFICILE ANNO DA ROOKIE | L’inizio della sua carriera NBA non è dei più semplici: approdato in quella che è diventata la squadra di Shaq, Bryant trova poco spazio, pochi canestri e soprattutto poco ritmo in attacco. Nelle 71 partite giocate, il numero 8 segna meno di 8 punti a partita tirando con solo il 41.7% dal campo: sì, il vero Kobe è ancora lontano.

LA VITTORIA DELLO SLAM DUNK DEL 1997 | L’unica soddisfazione della sua prima stagione è il successo nello Slam Dunk Contest: il suo livello di atletismo è impressionante e le sue schiacciate convincono tutti a votare per lui, lasciandosi alle spalle Chris Carr e Michael Finley.

LA PRIMA SFIDA AL MITO MJ | La data è il 17 dicembre 1996 ma la vicinanza con il Natale non intenerisce Michael Jordan, che contro il giovane talento che non ha mai fatto mistero di aver sempre guardato al 23 di Chicago come fonte di ispirazione manda a referto 30 punti con 9 rimbalzi nella vittoria sui Lakers. Solo 5 (in 10 minuti di gioco) i punti a referto per la matricola gialloviola nel primo faccia a faccia col suo idolo.

I 4 AIRBALL CONSECUTIVI AI PLAYOFF CONTRO I JAZZ | L’episodio che tutti ricordano è quello della partita decisiva nella prima serie playoff giocata e persa da Bryant contro gli Utah Jazz. Il giovane Kobe è il protagonista in negativo di quel match. Pari 89-89, ultimi 10 secondi, Shaq fuori per falli: il pallone viene affidato nelle sue mani. Il suo tentativo però non trova neanche il ferro, così come i successivi tre tentativi dall’arco durante l’overtime, che condannano i Lakers alla quarta e decisiva sconfitta nella serie.

LA SECONDA STAGIONE | Il secondo anno le cifre di Bryant migliorano, ma non la sua efficacia: raddoppiano i punti, ma a moltiplicarsi sono anche i tiri in una stagione chiusa comunque come secondo miglior sesto uomo dell’anno alle spalle di Danny Manning. I Lakers però avanzano fino alle finali di conference battendo prima Portland e poi Seattle, ma schiantandosi di nuovo contro gli Utah Jazz di Stockton e Malone (0-4).

LA SFIDA CONTRO JORDAN ALL’ALL-STAR GAME | L’impatto del Bryant personaggio però è già di gran lunga superiore a quello del giocatore, come dimostrano le selezioni dell’All-Star Game. Kobe infatti diventa il più giovane nella storia a essere votato come titolare per la partita delle stelle. Alla fine il faccia a faccia con Jordan lo vince il numero 23 dei Bulls, premiato come MVP del match, ma il livello dello scontro è altissimo. L’allievo vuole dimostrare di essere fatto della stessa pasta del maestro.

IL TERZO ANNO E IL LOCKOUT | La stagione è ridotta a sole 50 partite ma Bryant sboccia definitivamente: manca solo di un decimo i 20 punti di media (19.9) in quasi 38 minuti a partita, anche perché a marzo i Lakers scambiano il suo pari-ruolo Eddie Jones. Il percorso dei Lakers ai playoff però si interrompe di nuovo con un cappotto: 0-4 al secondo turno contro i San Antonio Spurs.

L’ARRIVO DI PHIL JACKSON | In estate i Lakers decidono di cambiare: addio Del Harris, dentro Phil Jackson, che dopo un anno sabbatico dai Bulls torna in panchina per dare il via a una nuova dinastia. Kobe lo accoglie con trepidazione, facendogli firmare una copia del libro “More Than A Game” che aveva divorato nei mesi precedenti.

LA PRIMA ALLO STAPLES CENTER | La stagione 1999-2000 è anche la prima del nuovo Staples Center, inaugurato proprio nella prima annata di Jackson a L.A.. Kobe però è costretto a saltare il primo mese di regular season e debutta nella nuova casa solo a dicembre, segnando 19 punti nella vittoria contro i Golden State Warriors nel palazzo dove sono appese le sue due maglie.

KOBE-SHAQ REDEMPTION | Kobe migliora in regular season sotto quasi tutte le voci statistiche e viene votato per il primo quintetto difensivo, ma è ai playoff che si toglie le maggiori soddisfazioni. In finale di conference contro i Portland Trail Blazers realizza una delle giocate più iconiche di quell’era: sotto di 13 a inizio ultimo quarto di gara-7, Kobe suggella una rimonta storica facendo un crossover a Scottie Pippen e alzando l’alley-oop per Shaquille O’Neal nell’ultimo minuto di gioco, decidendo la rimonta.

IL PRIMO TITOLO | Bryant conquista il primo titolo NBA della sua carriera battendo gli Indiana Pacers in sei partite, mettendo la firma sulla decisiva gara-4. Dopo aver saltato buona parte di gara-2 e tutta gara-3 per una brutta distorsione alla caviglia, Bryant stringe i denti scendendo in campo per la quarta e domina nel supplementare quando Shaq esce di scena per falli, chiudendo a quota 28 punti. Al ritorno a L.A. per gara-6 sono i suoi liberi della staffa a consegnare il primo titolo ai Lakers.

IL SECONDO TITOLO | Nella seconda stagione Kobe si ribella per tutta la stagione contro il ruolo di “secondo violino” che invece aveva accettato l’anno precedente, litigando a più riprese tanto con Shaq quanto con Jackson - specialmente a mezzo stampa. Dopo una regular season tumultuosa però la squadra cambia marcia nei playoff: 15 vittorie e una sola sconfitta, in gara-1 di finale contro la Philadelphia di Allen Iverson. Fino al 16-1 degli Warriors negli playoff del 2017 è stata la post-season più dominante di sempre.

L’HAMBURGER AVARIATO | Nei playoff dell’anno del terzo titolo accade un episodio curioso: nella notte tra gara-1 e gara-2 delle finali di conference contro i Sacramento Kings, un bacon cheeseburger avariato provoca una terribile intossicazione alimentare a Bryant. I tentativi di Gary Vitti di rimetterlo in piedi si rivelano vani: Kobe scende in campo ma non si rivela il suo “Flu Game”, chiudendo con 22 punti ma con 9/21 al tiro e 4 palle perse, perdendo la sfida (ma non la serie).

IL TERZO TITOLO NBA | Dopo aver superato i Kings in una delle serie di playoff più controverse della storia della lega (grazie anche al miracoloso canestro di Robert Horry in gara-4), i Lakers completano il three-peat battendo i New Jersey Nets di Jason Kidd in quattro comode partite. Alla fine della quarta Kobe si mise addosso una maglia di Michael Jordan del 1998, sottolineando implicitamente come fosse riuscito a vincere anche lui tre titoli in fila.

GLI ARRIVI DI PAYTON E MALONE | L’anno successivo ai Lakers non riesce il quadri-peat, fermati al secondo turno dai San Antonio Spurs avviati verso l’anello, e per questo nell’estate del 2003 fanno le cose in grande. Alla banda si uniscono Gary Payton e Karl Malone, creando la squadra dei “quattro Hall of Famer” destinata a dominare la NBA. Non andrà esattamente così.

IL COLORADO | La stagione di Kobe viene inevitabilmente segnata dal processo per presunta violenza sessuale cominciato in Colorado nell’estate del 2003. Oltre alle ripercussioni personali e familiari, Bryant è costretto a fare avanti e indietro dalle sedute in tribunale praticamente per tutto l’anno, a volte presentandosi al palazzo giusto in tempo per la palla a due. Il processo si concluderà anni dopo con la ritira delle accuse, ma avrà uno strascico tanto sull’annata quanto sull’immagine pubblica di Kobe.

LA SCONFITTA IN FINALE CONTRO DETROIT | Nonostante tutti i problemi, i Lakers tornano in finale NBA e partono come favoriti contro i Detroit Pistons di Larry Brown. La realtà in campo, e non quella sulla carta, si rivela molto diversa rispetto a quanto immaginato: trascinati da Chauncey Billups e da un quintetto che gira a memoria, i Pistons schiantano i gialloviola in cinque partite. L’unica vittoria arriva grazie a una tripla di Kobe che forza l’overtime in gara-2

I MOTIVI DELLA DISFATTA | Kobe è costretto a saltare 19 gare, Shaquille altre 15, Karl Malone non è in campo per metà stagione (40 partite ai box): gli infortuni fanno pagare un prezzo salato a quello che oggi verrebbe chiamato un “superteam”. La chimica di squadra — anche per le continue assenza — fa fatica a crearsi: il resto lo fa il difficile amalgama di quattro personalità del genere (c’è anche Gary Payton).

IL RINNOVO E GLI ADDII A JACKSON E SHAQ | L’estate del 2004 rappresenta uno spartiacque della sua carriera: Kobe mette la dirigenza dei Lakers davanti a un “o me o loro”, intesi come Phil Jackson e Shaquille O’Neal. E i Lakers scelgono lui, rendendolo di fatto il personaggio angolare di tutta la franchigia, un ruolo sottolineato anche dal rinnovo multi-milionario annunciato… un giorno dopo l’addio a Jackson e O’Neal.

SOLO SULL’ISOLA | Gli anni senza i due ego dell’allenatore (che ritorna dopo un solo anno di addio) e del compagno (che a Miami gioca per il titolo), però, si rivelano più solitari di quanto immaginato. Kobe si toglie grandi soddisfazioni dal punto di vista realizzativo, toccando il suo massimo in carriera con 35.4 punti a partita nel 2005-06, ma poche soddisfazioni a livello di playoff che manca per un anno e che abbandona dopo un solo turno nel 2006 e nel 2007.

QUELLA SERA DA 81 PUNTI | In questo biennio, Kobe Bryant realizza la prestazione più leggendaria della sua carriera: il 22 gennaio 2006 segna 81 punti contro i Toronto Raptors, la seconda miglior gara di sempre nella storia della NBA dietro i 100 di Wilt Chamberlain. Bryant segna 26 punti nel primo tempo, 27 nel terzo quarto e 28 nell’ultimo, chiudendo con 28 canestri segnati su 46 tentati, 7/13 da tre, 18/20 ai liberi per — ovviamente — 81 punti. Nel dopo partita Phil Jackson dirà: “Ho assistito a tante partite nella mia carriera, ma non ho mai visto nulla del genere”.

IL BUZZER BEATER AI PLAYOFF CONTRO PHOENIX | La giocata simbolo di quegli anni così difficili è il buzzer beater segnato contro i Phoenix Suns di Steve Nash. Sopra 2-1 nella serie ma sotto di 1 a pochi secondi dalla fine del supplementare, Bryant sfrutta una giocata difensiva di Smush Parker e una palla a due vinta dai suoi per prendere e segnare il canestro della vittoria, venendo poi sommerso dai compagni. I gialloviola, nonostante i tre match ball, non vinceranno però quella serie, venendo eliminati in gara-7.

IL PASSAGGIO AL #24 | Dopo quella eliminazione, nell’estate del 2006 Kobe decide di cambiare numero di maglia, passando dall’8 che aveva accompagnato la prima metà al 24 della seconda, a testimoniare il suo impegno per rimanere concentrato 24 ore al giorno per migliorare come giocatore e come uomo.

LA RICHIESTA DI TRADE | Il 2006-07 è un anno funesto per Kobe, che dopo la seconda eliminazione per mano dei Phoenix Suns (questa volta senza storia e in cinque partite) chiede la cessione alla dirigenza. Nessuna delle proposte arrivate — principalmente da Chicago e Detroit — convince i Lakers a cederlo, e anche Kobe si rende conto che per arrivare a lui le squadre interessate avrebbero dovuto cedere troppi buoni giocatori.

L’ARRIVO DI PAU | Al contrario il GM Mitch Kupchak riesce nel colpo di portare a Los Angeles Pau Gasol in cambio dei diritti sul fratello Marc, Kwame Brown e altri giocatori minori. Si rivela una svolta tanto per Bryant quanto per i Lakers, che trovano un All-Star perfetto per giocare con Kobe (cedendogli le luci della ribalta) e all’interno dell’attacco Triangolo, che esalta le sue doti di passatore.

IL PRIMO (E UNICO) MVP | Con uno come Pau a fianco, i Lakers decollano e Kobe Bryant viene votato - per la prima e unica volta in carriera - come Most Valuable Player della lega per la stagione 2007-08. Dietro di lui finiscono Chris Paul dei New Olreans Hornets e Kevin Garnett, al suo primo anno con i Boston Celtics.

LA SCONFITTA IN FINALE CON BOSTON | Proprio Garnett si prende la rivincita dando a Bryant un’altra delusione: le finali del 2008 sono quelle che riaccendono la rivalità tra Lakers e Celtics, tornate a sfidarsi dopo vent’anni. Ad avere la meglio sono i biancoverdi, che guidati dal trio Pierce-Allen-Garnett regalano ai tifosi di Boston il tanto atteso “Banner 16”, mentre Kobe perde la seconda finale dopo quella del 2004.

PRIMO ORO OLIMPICO: PECHINO 2008 | Se non altro Kobe si rifà vincendo il primo oro olimpico della sua vita. Dopo aver saltato le precedenti edizioni dei giochi per vari problemi di natura fisica, Bryant risponde “Presente” alla convocazione del Redeem Team che deve riconquistare l’oro dopo la tragica spedizione di Atene 2004. Lascia la sua firma con una tripla fondamentale in finale contro la Spagna, portandosi il dito alla bocca per il momento più iconico della sua carriera con la nazionale USA.

IL QUARTO TITOLO, IL PRIMO DA MVP | La fame di titoli e di vittorie di Kobe non si placa, anzi: nel 2008-09 torna ancora più carico per riprendersi quell’anello sfuggito contro i Celtics. I suoi Lakers vincono 65 partite in regular season e nei playoff si sbarazzano di Utah (4-1), Houston (4-3 soffrendo) e Denver (4-2) presentandosi di nuovo in finale, dove ad attenderli però ci sono gli Orlando Magic invece dei Boston Celtics. La serie è più combattuta del 4-1 finale, ma non c’era alcuna possibilità che Kobe mancasse l’appuntamento con il primo premio di MVP delle Finals della sua carriera.

I 61 AL GARDEN | Narra la leggenda che Kobe abbia chiesto al portiere dei Madison Square Garden quale fosse il record per punti segnati in singola partita, e che quando abbia sentito la risposta (60, segnati da Bernard King nel Natale del 1984) abbia detto solamente: “Ok, ci penso io”. Che sia realtà o leggenda, i 61 al Madison Square Garden rimangono una delle gare più iconiche della sua carriera, mostrando cosa era in grado di fare con tutte le luci puntate su di sé.

IL QUINTO TITOLO, IL PIÙ BELLO DI TUTTI | I Lakers incrociano di nuovo le spade con i Boston Celtics dopo aver eliminato Oklahoma City, Utah e Phoenix. Ne esce una serie combattutissima che culminerà nella vittoria che Kobe Bryant ha sempre dichiarato — anche a carriera conclusa — di ritenere la più bella di sempre. Dalle rivalità degli anni ’60 e quelle degli ’80, Lakers-Celtics non è mai una sfida come le altre e Kobe chiude le 7 gare contro Boston con 28.6 punti, 8.6 rimbalzi, 3.9 assist e 2.1 recuperi di media.

UNA GARA-7 PER L’ANELLO | Una partita difficile, sotto tutti gli aspetti, tecnici, emotivi, nervosi, la gara-7 con cui Kobe Bryant e i Lakers cercano la vendetta delle finali perse nel 2008 contro gli avversari di sempre, i Boston Celtics. Bryant tira solo 6/24 dal campo, sbagliando tutte e 6 le triple che tenta. Ma nel quarto periodo è (quasi) infallibile dalla lunetta, dove va a prendersi quei punti indispensabili alla vittoria che il campo non gli regala: 8/9 per lui ai liberi (11/15 il dato complessivo) per una gara da 23 punti e 15 rimbalzi, a suo modo leggendaria.

LA FINE DELL’ERA JACKSON | L’anno successivo i Lakers provano l’assalto ad un altro threepeat, ma il roster è vecchio e il ginocchio di Kobe non è nelle condizioni necessarie per provarci di nuovo. Come spesso accade, il crollo dell’impero gialloviola è rovinoso: dopo aver faticosamente superato il primo turno contro New Orleans, Bryant e soci vengono spazzati via 4-0 dai Dallas Mavericks poi campioni NBA. A fine anno Phil Jackson, impossibilitato a continuare per un’anca in disordine, deve lasciare la panchina.

GLI ANNI DA PRIMO QUINTETTO ALL-NBA | L’addio di Jackson e il mancato rinnovamento dei Lakers non permettono a Bryant di avere un contesto competitivo con cui cercare di vincere negli ultimi anni di carriera, pur continuando a giocare ad altissimo livello specialmente nella metà campo offensiva (primo quintetto All-NBA sia nel 2012 che nel 2013).

SECONDO ORO OLIMPICO, LONDRA 2012 | Dopo la soddisfazione del 2008, Bryant è tra i 12 che vengono convocati per confermare l’oro vinto a Pechino, e riesce nell’obiettivo pur avendo un ruolo minore rispetto al passato. Kobe si limita a fare il difensore e il facilitatore, lasciando il proscenio a LeBron James e Kevin Durant (reduci dallo scontro in finale nel 2012) ma chiudendo la sua carriera in Nazionale senza subire neanche una sconfitta.

L’INFORTUNIO AL TENDINE | Nell’estate del 2012 i Lakers acquisiscono sia Steve Nash che soprattutto Dwight Howard, cercando in questo modo di dare a Kobe un’ultima grande squadra per puntare al titolo. La stagione però si rivela un disastro, raggiungendo i playoff solo per il rotto della cuffia e subendo la peggior notizia in assoluto. In una gara interna con i Golden State Warriors Kobe si rompe il tendine d’Achille e deve dire addio ai playoff e alla stagione: non tornerà più a disputare una gara di post-season in carriera.

GLI ULTIMI ANNI DI CARRIERA | I due anni successivi alla rottura del tendine d’Achille sono piagati dagli infortuni: gioca solo 6 partite nel 2013-14 e 35 in quella successiva, giocando quindi solo 41 delle 164 partite disponibili. I Lakers senza di lui crollano nell’anonimato, raccogliendo solo 48 vittorie in due anni nonostante l’addio a Mike D’Antoni e l’arrivo di Byron Scott.

IL FAREWELL TOUR | Nella stagione 2015-16 appare chiaro rapidamente che non ci siano i presupposti per avere una squadra da playoff, e per questo a fine novembre Kobe annuncia che quella sarà la sua ultima stagione in NBA con una lunga poesia-lettera su The Players’ Tribune. Ogni fermata del suo “Farewell Tour” si trasforma in un’occasione per celebrarne la carriera, venendo osannato in ogni arena degli Stati Uniti da spettatori disposti a pagare tantissimo pur di vederlo un’ultima volta in campo.

L’ULTIMA PARTITA DA 60 PUNTI | L’addio alla pallacanestro e alla NBA è di quelle da film più che da vita reale: nella sua ultima partita Kobe tira 50 volte e segna 60 punti, in un crescendo rossiniano che porta i suoi Lakers a rimontare e vincere contro gli Utah Jazz e manda in completo visibilio il pubblico dello Staples Center. Dopo la gara, a centrocampo, chiude il suo ultimo saluto lasciando il microfono con le immortali parole: “Mamba Out”.

QUEL CHE RESTA | Resta una carriera che ha regalato al n°8-poi-24 cinque titoli NBA, due titoli di MVP delle Finali, un premio di MVP NBA, due medaglie d'oro olimpiche, 18 convocazioni all’All-Star Game (con 4 titoli di miglior giocatore della partita delle stelle), 11 presenze nel primo quintetto offensivo e 9 in quello difensivo, e il terzo posto ogni epoca nella classifica marcatori con 33.643 punti, poi superato da LeBron James proprio il giorno prima della morte

IL 24/8: IL GIORNO DI KOBE BRYANT | “Per 20 anni siamo stati i beneficiari dell’incredibile talento e della leggendaria etica del lavoro di Kobe Bryant: il 24/8 vogliamo celebrarla dicendo pubblicamente ‘Grazie, Mamba’”. Con questa dichiarazione il membro del consiglio cittadino Jose Huizar dichiara il 24 agosto 2016 (giocando proprio sui numeri delle sue due maglie, 24 e 8) il “Kobe Bryant Day” per tutta la città di Los Angeles.

AMICO DI OBAMA | Uno è stato, per due interi decenni, il re di Los Angeles. L’altro, per due mandati (8 anni) il presidente degli Stati Uniti d’America. E quando Barack Obama — solo due settimane dopo la leggendaria prestazione di Kobe con i 60 punti contro Utah — ha tenuto il suo ultimo discorso ai corrispondenti esteri come primo inquilino della Casa Bianca, ha terminato il suo discorso proprio come aveva fatto il n°24 allo Staples Center: microfono lasciato cadere a terra e le parole “Obama out”.

L’OSCAR PER “DEAR BASKETBALL” | Nel marzo del 2018 vince l’Oscar per miglior cortometraggio animato con “Dear Basketball”, una trasposizione animata della sua lettera d’amore alla pallacanestro. "Mi fa sentire meglio che un titolo NBA" ha detto dopo la consegna, lanciando un frecciata alle polemiche sulle posizioni sociali dei giocatori di pallacanestro durante il discorso di accettazione.
L'OSCAR PER DEAR BASKETBALL
IL RITIRO DELLE DUE MAGLIE | Nel dicembre del 2018 i Los Angeles Lakers hanno ritirato le sue due maglie — la 8 e la 24 — in una cerimonia commovente ed elegante, in cui Magic Johnson lo ha definito "il più grande di sempre a vestire il gialloviola". La leggenda ha ringraziato tutti, chiudendo il suo discorso con il classico "Mamba Out".
LA CERIMONIA DEL RITIRO DELLA MAGLIA
GLI ULTIMI ANNI | Negli ultimi anni Kobe si era allontanato dai Lakers per occuparsi dei suoi affari (pubblicando anche una collana di libri per ragazzi) e la sua famiglia (allenando la squadra della figlia Gigi), oltre che aprendo una facility a suo nome. In due occasioni si è presentato allo Staples Center, venendo sempre accolto con grande calore in particolare da LeBron James