L'ormai ex superstar di Brooklyn continua a far discutere nella Grande Mela: in cover su uno dei magazine cittadini più letti, il ritratto che ne esce lascia più ombre che luci, dipingendo Irving come "l'archetipo di una generazione a proprio agio più nel mondo virtuale che in quello reale"
"Ma che cosa pensava Kyrie Irving?" Il titolo sembra già dire tutto: una domanda - fatta, indirettamente, alla superstar NBA - che riflette la sensazione di tanti tifosi dei Nets, quella di non aver mai compreso fino in fondo la loro point guard. Che forse, va detto, non ha voluto farsi comprendere. L'ultima copertina del "New York Mag" è così dedicata a Kyrie Irving, ormai lontano dalla Grande Mela, accasatosi a Dallas per giocare non più al fianco di Durant ma di Doncic. E a NYC, sponda Brooklyn, resta la delusione, e forse anche un po' di rabbia. "Nei quattro anni qui ha giocato solo 143 delle 270 possibili gare di stagione regolare, producendo solo una serie di playoff vinta ma una serie di mal di testa senza fine", si legge. E così i titoli della stampa newyorchese sono passati dall'annuciare "la più grande squadra di tutti i tempi (forse)" (il New York Times) a definire i Nets come "la più strana e desolata franchigia NBA" (il Wall Street Journal). E al centro di questa metamorfosi, il fallimento di Kyrie Irving, definito - per le sue capacità in ball-handling - "il Lionel Messi della pallacanestro", ma ritratto anche come l'archetipo di un'intera generazione, personaggio "solitario, pensatore indipendente (che costruisce il suo pensiero navigando su Internet), a suo agio più nel mondo virtuale che in quello reale". Un ragazzo che ancora qualche anno fa, ospite di un podcast online, aveva ammesso di sentirsi perso: "Ho scalato la montagna più alta, ho vinto il titolo NBA, ma dopo la gioia è arrivato il vuoto. Dopo aver festeggiato, aver viaggiato, speso soldi e ottenuto nuovi contratti mi sono reso conto di non sapere chi fossi". Ha cercato la sua identità nelle sue origini tra le tribù dei nativi americani, dove è nata sua madre Elizabeth (persa quando Kyrie era giovanissimo): da qui il nome Hélà, che in Lakota vuol dire "piccola montagna" e che la point guard oggi ai Mavs utilizza sempre per firmarsi sui social.
"Una sorta di piccolo genio": l'opinione di un suo ex allenatore
Poi c'è stata la pandemia e il suo rifiuto a vaccinarsi (costatogli 11.4 milioni di dollari in stipendi non percepiti), le tante gare saltate, la polemica per un link a un documentario antisemita, altre gare saltate e altre polemiche. E proprio un veccho allenatore, ebreo, che lo conosce bene, dice: "È una sorta di piccolo genio. Solo che i geni a volte non capiscono le cose più semplici". Incompreso, forse incomprensibile, sembra essere il destino di Kyrie Irving. Ma sempre in copertina (come sulla prima del New York Mag): nel bene e nel male.