NBA, Chris Paul e l'arte di essere secondo ma vincente

Il primo pensiero, lo ammetto, è andato a coach Laton. Un pensiero con tanto di scuse annesse, a essere sinceri. Sono andato a cercare online per vedere se oggi, più di vent’anni dopo, insegnasse ancora alla West Forsyth High School di Clemmons, sobborgo di Winston-Salem, North Carolina. È lì che l’avevo incontrato, due decenni fa, intrufolandomi – non annunciato – tra i corridoi di questo tranquillo liceo americano. La sera prima ero stato al campus di Wake Forest, per una gara di ACC, e il motivo era uno solo: veder giocare Chris Paul. Poi, visto che restavo in zona qualche giorno, scelsi di passare dal suo liceo, non sapendo bene cosa aspettarmi. Ne venne fuori una lunga chiacchierata con quello che era stato il suo allenatore al liceo. Ma anche il suo professore di storia. Oggi Laton non allena più, in un decennio alla guida di West Forsyth ha vinto 191 partite e ne ha perse 88. Che di anni ne siano passati parecchi è testimoniato dal fatto che oggi l’allenatore sia tale Tom Kratowicz, ma soprattutto che sul sito dell’istituto la storia come materia scolastica neppure esista più, raggruppata dentro più generici “social studies”. Di anni ne sono passati parecchi, ma una cosa che mi disse quel giorno di gennaio 2005 coach Laton me la ricordo bene: “È il giocatore più forte che abbia mai allenato. Credo possa diventare una delle point guard più forti di sempre”. E io non ci avevo creduto. Lo ammetto. Non lo avevo preso sul serio. Ricordo di aver pensato: “E quanti giocatori di un certo livello avrà mai allenato, Mr. Laton?”. E soprattutto: “Uno dei più forti di sempre? Con quel corpo?” . E invece. Invece coach Laton aveva ragione. Lo aveva allenato, lo aveva visto in palestra giorno dopo giorno, e aveva capito. Oggi lo capiamo anche noi – non necessariamente oggi, perché 12 convocazioni all’All-Star Game, 11 inclusioni nei migliori quintetti NBA e 9 in quelli difensivi ci raccontano di un’eccellenza che dura da anni. Ma oggi c’è un numero, quello degli assist – quasi 12.100 – che fotografa meglio di tutti la grandezza di Chris Paul. Perché a quota 12.091 c’era Jason Kidd, secondo all-time nella classifica dietro l’inarrivabile John Stockton ma quella seconda piazza ora appartiene a Chris Paul, che l’ha sorpassato solo un paio di giorni fa . Il prossimo sorpasso – ancora ai danni dell’attuale allenatore di Dallas – è questione di tempo, forse potrebbe arrivare già entro la fine di questa stagione, perché a Paul mancano 37 recuperi per salire al secondo posto all-time anche di questa particolare classifica . Ma gli assist, per un playmaker, sono la statistica per eccellenza. Se non sei alto attorno ai due metri – e tanto meno 2.24, come il suo nuovo compagno di squadra a San Antonio Victor Wembanyama – quello puoi fare: metterti al servizio della tua squadra, dei tuoi compagni, e metterli nelle migliori condizioni di segnare. Solo John Stockton, statistiche alla meno, lo ha fatto meglio di lui nella storia del gioco. Più assist di LeBron James , di Steve Nash e di Mark Jackson, di Magic Johnson e Oscar Robertson, i nomi che – in ordine – lo seguono in classifica. “Credo possa diventare una delle point guard più forti di sempre”, mi aveva detto coach Laton. Lo è diventato. Oggi sappiamo tutto del Chris Paul dei record. In 20 anni di NBA ha regalato assist a 173 giocatori diversi. Più di tutti a Blake Griffin e David West , i suoi ricevitori preferiti rispettivamente ai Clippers e agli Hornets, quando giocavano a New Orleans. Tra i beneficiati anche i nostri Belinelli e Gallinari – e la testimonianza che ci ha lasciato Marco vale oro: “Mai giocato con un passatore come lui. La palla arrivava sempre quando e dove doveva arrivare”. Sappiamo che i Sacramento Kings, e subito a ruota i Los Angeles Lakers, sono le squadre contro cui ha distribuito più assist . Sappiamo che in maggioranza li ha fatti registrare nel primo quarto delle sue partite . Oggi sappiamo tutto, ma una volta era meno facile – anzi, praticamente impossibile – poter anche solo immaginare una cosa del genere. A meno che non foste coach David Laton. Una carriera, quella di Chris Paul, sempre legata a un numero di maglia, il 3 e che oggi vede irrompere con prepotenza un altro numero – il 2. Quel numero che, cambiando la declinazione da cardinale a ordinale, diventa “secondo”. Secondo per assist. Secondo per recuperi. Serve a ingigantire le sue prestazioni, serve a esaltare i risultati raggiunti, a consacrare una carriera straordinaria. Ma non sfugge a nessuno che nello sport si compete per arrivare primi, per vincere, e di vincere – un titolo NBA – a Chris Paul non è riuscito. Ha in palmares due medaglie d’oro olimpiche , un titolo di MVP dell’All-Star Game e il premio di rookie dell’anno al suo ingresso nella lega. Ma alle dita manca l’anello di campione NBA, inseguito a lungo, in alcune occasioni, almeno un paio, sentito vicinissimo. Una prima volta sopra 3-2 con i suoi Houston Rockets contro Golden State ai playoff 2018 e tre lettere accanto al suo nome sul tabellino di gara-6 e di gara-7, messo fuori gioco da uno stiramento al bicipite femorale. Un’altra volta, ancora più amara, nel 2021, in finale NBA, con i suoi Suns in vantaggio 2-0 dopo le prime due gare contro i Bucks, prima di vedere Antetokounmpo e compagni vincerne quattro in fila, ribaltare la serie e stappare lo champagne in spogliatoio. Chris Paul non ha mai vinto, no. È spesso arrivato secondo. Anche come passatore. Dietro a John Stockton, guarda caso un altro che non ha mai vinto. Ma chi l’ha detto che è vincente solo chi arriva primo?