Le cose che Kobe Bryant ancora non ci ha detto

Scrivere della morte di una persona è quasi sempre un esercizio doloroso. Lo è se quella persona l’hai conosciuta bene: ne scrivi in pubblico perché senti di doverlo fare, ma sai che i ricordi e le memorie che andrai a sbloccare andranno ad aumentare, non certo a lenire, la sofferenza. Se invece la persona in oggetto non l’hai conosciuta, e ne scrivi in pubblico per vari motivi , ogni parola crea imbarazzo per l’estrema scivolosità del terreno sul quale ti stai avventurando. Quanto segue rientra nella seconda categoria prospettata: non ho mai conosciuto Kobe Bryant come essere umano, ma solo come splendido professionista, sia in qualità di giocatore dei Lakers sia come principale attrazione di eventi ai quali ho partecipato con un ruolo marginale. Di solito, in una situazione simile, si supera il problema parlando di te invece che di lui. Racconti di quando lo hai visto, di quando vi siete salutati, di cosa hai pensato quando ha fatto questo o non ha fatto quello. Per quanto questa scappatoia sia profondamente umana , vorrei ardentemente evitare di usarla. Se devo scrivere del giocatore, non ha senso che vi racconti di me in rapporto a lui. Grandi artisti come Kobe, per fortuna, ci lasciano opere che stimolano pensieri e ispirazioni . Quindi, se si tratta di basket, il consiglio è quello di compulsare le immagini e le biografie, non di stare a sentire il sottoscritto o chiunque altro che come Narciso si riflette nella morte altrui. Se invece bisogna parlare della persona, come detto non ho elementi a sufficienza. Solo che non sono affatto sicuro che si riesca a dividere la persona dal cestista. Quando Kobe si è ritirato dall’attività agonistica noi a Sky, come presumo mille altre TV del mondo, abbiamo preparato immagini e testi che di solito accompagnano il decesso di una persona. Molto più significativo, nella stessa prospettiva si è posto lo stesso Kobe. Quello strepitoso atto di amore che inizia con Dear Basketball è a tutti gli effetti un testamento. Tanto è così che il capolavoro è stato riproposto in maniera virale nei giorni della scomparsa dell’autore di quella lettera, della figlia e di seven others, come riportano i resoconti dell’epoca. Carmela, mamma di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone, ha detto: "Perché il nome di mio figlio non lo dicono mai? È morto come gli altri". Ecco, se vogliamo fare un salto di qualità, guardiamo anche agli altri occupanti di quell’elicottero . Come ho detto, e lo ribadisco, non ho conosciuto Kobe Bryant. Ciò non toglie che prima e dopo il disastro di Calabasas abbia cercato di farmi raccontare da chi lo conosceva il maggior numero di cose su un interprete di qualcosa, il basket, che è stato ed è parte integrante della mia vita. Tutti questi racconti possono essere utilizzati per rinforzare o per sbriciolare a colpi di aneddoti la cosiddetta narrative, cioè la narrazione prevalente del personaggio . Anche qui, nulla di terribile, ma ugualmente passo. Passo perché per fortuna siamo più complessi dei mille episodi che attraversano la nostra vita. E perché trovo come minimo cervellotico ergersi a giudici della vita degli altri beatificandoli o censurandoli. I racconti che ho raccolto, però, descrivono in maniera univoca una persona piena di raziocinio e di curiosità. Due tratti ai quali io dò una connotazione largamente positiva. E allora mi viene in mente che un anniversario può essere l’occasione per razionalizzare e per essere curiosi. Non curiosi come i soccorritori che scattarono foto ai corpi straziati delle nove vittime. E non raziocinanti come quelli che rifiutano la commozione che, pur lontano dalla mia sensibilità, ha genuinamente unito così tante persone in cinque continenti. Quando dico "razionalità" penso alla possibilità di non annettere alla morte di un giocatore, e ancor meno al suo ritiro dal gioco, significati metafisici o esoterici. E quando dico "curiosità", intendo andare oltre alle ore di allenamento, alla maestria in post basso, alla durezza con sé stesso e con gli altri e alla grande capacità di gestirsi in pubblico. Come tutte le vite che finiscono, anche quella di Kobe Bryant ha da dirci delle cose che ancora non ci ha detto. Le ha dopo cinque anni e le avrà tra altri cinquanta, perché non sopravvivono solo highlights e interviste. E allora, forse, per onorare uno dei Grandi del Gioco, cercare nelle pieghe della sua vita, in silenzio, è il massimo atto di rispetto. Questo sì, si può fare.

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Le cose che Kobe Bryant ancora non ci ha detto

Flavio Tranquillo