Cinque partite leggendarie per ricordare Kobe Bryant

Inutile girarci intorno: rimuginare e congetturare a proposito dei modi e dei toni con cui vorrebbe essere ricordato chi non c’è più è uno spreco bello e buono di tempo e di energie, a maggior ragione se chi non c’è più è una figura pubblica di grande notorietà. E Kobe Bryant era, è e rimarrà a lungo uno degli atleti più popolari del pianeta. È perciò molto difficile scegliere oggi tra le tante cose che si potrebbero dire e raccontare di lui, anche perché il rischio di scadere nella retorica è alto almeno quanto quello di risultare stucchevoli e magari anche di annoiare. Eppure, a cinque anni dal brutale incidente che ha segnato la fine prematura di una vita straordinaria nel vero senso della parola, tacere e fingere che la tragica morte della stella dei Lakers non abbia lasciato un vuoto enorme non sembra giusto. Che fare, quindi? Per provare a risolvere il dilemma non resta che aggrapparsi a una certezza granitica: Bryant amava il basket di un amore viscerale, genuino e profondissimo, poi tramutatosi in autentica devozione. E allora, forse, riportarlo per un momento sul parquet con la palla in mano, mentre faceva ciò che adorava al di sopra di ogni altra cosa, rievocando cinque partite leggendarie regalate ai posteri nell’arco di quasi vent’anni potrebbe essere il modo più rispettoso di rendergli omaggio. O quantomeno di tenerne viva la memoria, perché se capire come ricordare al meglio Kobe può essere difficile, dimenticarlo è del tutto impossibile. ALL-STAR GAME 1998: IL PASSAGGIO DI CONSEGNE L’annata da rookie di Kobe Bryant, chiusa a 7.6 punti di media in 15.5 minuti giocati a partita entrando dalla panchina, non impressiona granché, tanto che in molti, a Los Angeles e tra gli addetti ai lavori, mettono in dubbio le ragioni che avevano portato i Lakers, fortemente spinti da Jerry West, a investire su un ragazzino di 17 anni senza alcuna esperienza di basket universitario. Tuttavia, già al suo secondo anno da professionista Kobe, sempre partendo dalla panchina, compie un salto di qualità netto e quando la stagione arriva alla consueta pausa per l’All-Star Game le sue medie sono diventate di 17.9 punti in 26.7 minuti di media a partita. Non sono tanto i numeri, però, quando l’alto tasso di spettacolarità delle sue giocate a procurargli un posto nel quintetto della Western Conference per la partita delle stelle. A soli 19 anni, Bryant è il più giovane di sempre a partire in quintetto all’All-Star Game e accanto a lui, a rappresentare l’Ovest, ci sono giocatori ben più affermati come il compagno in gialloviola Shaquille O’Neal e il veterano Karl Malone. A Kobe, però, dei compagni di squadra interessa fino a un certo punto, perché la sua attenzione è rivolta prima di tutto a un avversario. D’altro canto, Michael Jordan, che sta vivendo l’ultimo ballo della sua epopea con la maglia di Chicago, non è solo il beniamino di Bryant, è molto di più: è il modello attorno a cui ha plasmato la sua identità, dentro e fuori dal campo. Tanto che nelle due sfide di regular season già giocate tra Bulls e Lakers, l’allievo ha approfittato di ogni pausa e momento morto per chiedere consigli al maestro. L’ammirazione e il rispetto che Kobe prova per Michael sono enormi, ma non si traducono affatto in un timore reverenziale che sarebbe più che comprensibile. Anzi, all’All-Star Game 1998, sul parquet del Madison Square Garden, l’allievo sfida da subito il maestro, fregandosene altamente dell’etichetta che vorrebbe la partita delle stelle come un’esibizione quasi del tutto priva di risvolti agonistici. I due, Kobe e Michael, si marcano a vicenda, ricorrendo anche a qualche colpo basso e senza rinunciare al puro scontro fisico quando si rende necessario. Alla fine, è ancora il maestro ad avere la meglio, perché Jordan trascina alla vittoria per 135-114 la Eastern Conference e con i suoi 23 punti viene anche eletto MVP della manifestazione. Bryant, dall’altra parte, chiude con 18 punti e al suo esordio assoluto tra le stelle è il secondo miglior marcatore della partita dietro solo a Jordan. Un Jordan che in teoria non avrebbe nemmeno dovuto giocare quella sera, perché reduce da una forte sindrome influenzale, ma che nelle interviste del dopo partita non nasconde di aver apprezzato l’approccio alla gara del giovane rivale. “Mi ha attaccato da subito” dichiara Jordan, per poi aprire a quello che assomiglia a tutti gli effetti a un passaggio di testimone, “se vedi qualcuno che non sta bene, d’altronde, lo devi attaccare. Mi piace la sua attitudine”. INDIANAPOLIS 2000: KOBE DIVENTA KOBE Dopo tre stagioni in NBA, Kobe Bryant si è guadagnato un posto nel quintetto dei Lakers, che non è poca cosa, migliorando di anno in anno quanto a efficienza e continuità, eppure la sensazione è che gli manchi qualcosa per fare il salto di qualità definitivo e diventare una superstar. La squadra, costruita attorno al talento dominante di Shaquille O’Neal, è competitiva, ma non dà mai davvero la sensazione di poter ambire al titolo. Nell’estate del 1999, però, l’arrivo in panchina di Phil Jackson cambia tutto, soprattutto per Kobe. Jackson è reduce da un anno sabbatico dopo i trionfi a Chicago e se Kobe considera Jordan il suo maestro, non c’è alcun dubbio sul fatto che sia stata la presenza al suo fianco del coach, diventato poi quasi un mentore per la stella dei Bulls, ad averlo reso tale. Il giovane Bryant si affida quindi a Jackson e con lui tutti i Lakers, che veleggiano durante la regular season e sfiorano il record di franchigia di 69 vittorie ottenuto nel lontano 1972. Una volta arrivati ai playoff il percorso si fa accidentato, ma sulle spalle di un O’Neal oggettivamente immarcabile arriva comunque il ritorno alle Finals dopo 9 anni. Di fronte c’è Indiana, allenata da un vecchio rivale dei gialloviola come Larry Bird, e nei primi due episodi della serie, giocati a Los Angeles, O’Neal giganteggia portando i Lakers in vantaggio 2-0. In gara-2, però, i padroni di casa perdono Bryant già sul finire del 1° quarto a causa di una distorsione alla caviglia sinistra rimediata cadendo sul piede della guardia avversaria Jalen Rose. Kobe è così costretto a saltare gara-3, dove non basta un O’Nealda 33 punti e 13 rimbalzi a evitare la vittoria dei Pacers che riapre la serie. In gara-4 il clima alla Conseco Fieldhouse di Indianapolis è rovente e Bryant stringe i denti pur di esserci. Solo che la caviglia sinistra è ancora gonfia e il primo tempo da soli 6 punti e 3/7 dal campo mette in evidenza la sua precaria condizione fisica. Al rientro dopo l’intervallo lungo i 10 punti segnati da Bryant nel 3° quarto riportano avanti i Lakers, ma Indiana recupera e alla sirena finale il punteggio è in perfetta parità a quota 104. Il problema è che O’Neal inizia il supplementare con 5 falli e con 2:33 ancora da giocare nell’overtime commette il suo 6° ed è costretto ad abbandonare il campo. I Lakers sono in vantaggio 112-109, ma il pubblico sugli spalti esulta come per un canestro decisivo perché intuisce che senza la loro colonna i rivali non potranno più arginare i 224 centimetri del centro olandese dei Pacers Rik Smits. Jackson, in assenza di alternative, è costretto a sostituire O’Neal con John Salley, già campione NBA con Pistons e Bulls e protagonista di mille battaglie, che però ha 36 anni ed è tornato a giocare da pochi mesi dopo tre anni di inattività. Indiana, come era facile prevedere, va subito da Smits, che con un gancio fin troppo facile riporta i padroni di casa a -1. Quando si entra negli ultimi due minuti del supplementare è quindi chiaro a tutti come di fronte ai Pacers si apra la possibilità di pareggiare la serie, che viceversa sul 3-1 in favore dei Lakers sarebbe di fatto chiusa. Lo sanno bene i tifosi di casa, che fanno un baccano infernale e sul possesso successivo urlano a squarciagola “Defense! Defense!”. Con O’Neal fuori dai giochi, la palla finisce quasi inevitabilmente nelle mani di Bryant, che la riceve già dalla rimessa sotto il canestro amico e non accenna minimamente a volerla passare a un compagno. Arrivato ai limiti dell’area dei Pacers, Kobe sfida Reggie Miller nell’uno contro uno, un confronto che l’estate precedente si è ripetuto centinaia di volte durante le lunghe sessioni di allenamento che la giovane stella dei Lakers e il veterano di Indiana hanno condiviso a Los Angeles. Il risultato è un jumper dalla media distanza preso dopo aver palleggiato sfidando l’avversario a rubargli la palla e che sembra in tutto e per tutto tratto dal manuale del maestro Jordan. La scena si ripete poco dopo, con Smits che segna quasi indisturbato e Bryant che gli risponde con un altro jumper, questa volta preso dall’altezza della linea del tiro libero e in faccia a Mark Jackson. E i Lakers sono ancora avanti 118-117 quando a 7 secondi dalla fine è Brian Shaw, che poco prima ha trasformato un tiro sbagliato da Glen Rice in un appoggio facile a canestro, a tentare la penetrazione nell’area avversaria. Il suo tiro si ferma sul primo ferro, ma Kobe arriva prima di tutti sul rimbalzo in attacco e lo trasforma in un tap-in spalle a canestro che rappresenta una prova di coraggio, tempismo e perizia tecnica sbalorditiva per un giocatore di soli 21 anni. Non solo, mentre Bird chiama subito time out per organizzare l’ultimo possesso dei suoi, è proprio Bryant, che si trova sul parquet con compagni che hanno almeno una decina d’anni più di lui, a invitare i suoi alla calma. Il pizzetto, accompagnato da un accenno di acconciatura afro, maschera solo in parte le fattezze da ragazzino del volto di Kobe, che chiude con 28 punti totali e che in quei 2:33 senza Shaq in campo ha appena compiuto una sorta di rito di passaggio all’età adulta in chiave NBA. I Lakers finiscono per vincere 120-118 e cinque giorni dopo vinceranno anche il titolo, il primo della carriera di Bryant. Sul cui conto, da lì in poi, dalla sera del 14 giugno 2000, non ci saranno più dubbi: Kobe è una superstar. 81 PUNTI AI RAPTORS: IL POTERE DELL’IMMAGINAZIONE Dopo la fine del sodalizio con Shaq, arrivata nell’estate del 2004, la carriera di Kobe Bryant vive una lunga parentesi fatta di prestazioni individuali strepitose, risultati di squadra mediocri e piccole e grandi frustrazioni. I Lakers del dopo O’Neal faticano a ritrovare slancio in una Western Conference dominata dal duopolio texano Spurs-Mavs con la variabile impazzita Phoenix a fungere da possibile alternativa. In casa gialloviola, insomma, si attraversa il più classico dei periodi di transizione, che però male si accorda con l’ambizione di Bryant. Ne risente anche il clima, non proprio di grande entusiasmo, che accompagna la squadra, in particolare quando in programma non ci sono sfide dal significato particolare. E la gara interna contro i Raptors del 22 gennaio 2006 non è esattamente quella che si definirebbe una partita di cartello. Toronto è in piena fase di ricostruzione, ma domina un primo tempo caratterizzato da un certo torpore. A 56 secondi dall’intervallo lungo, è un errore dalla lunetta di Bryant a scuotere un po’ gli animi, perché interrompe la striscia di 62 liberi consecutivi segnati, e gli ospiti rientrano negli spogliatori in vantaggio 63-49. Dei 49 punti segnati dai Lakers, 26 arrivano da Kobe, che in stagione sta viaggiando poco sopra i 35 di media, anche perché Lamar Odom, l’unica possibile spalla per Bryant all’interno di un roster povero di talento e personalità, è in una di quelle serate in cui la sua pigrizia emerge in maniera a tratti irritante. All’orizzonte, insomma, si profila una sconfitta un po’ a sorpresa ma tutto sommato accettabile all’interno del complicato calendario della regular season, anche perché i Lakers sono alla quinta partita giocata negli ultimi otto giorni. La ripresa, poi, si apre con due errori consecutivi di Bryant, ma paradossalmente sono proprio quei due tiri sbagliati a farlo entrare in ritmo. Da lì comincia una serie di giocate con cui Kobe riporta in partita i padroni di casa e rianima il pubblico accorso allo Staples Center. La sua schiacciata a 1:11 dal termine del 3° quarto fa segnare il primo sorpasso dei Lakers sull’87-85 e quella che arriva 40 secondi dopo regala il +6 sigillando un quarto da 27 punti per Bryant. L’inerzia della gara è ormai tutta dalla parte dei gialloviola, che prendono il largo nel 4° quarto. Kobe, però, non ne vuole sapere di fermarsi, anche se la vittoria è ormai solo questione di tempo rimasto sul cronometro, e i tre liberi segnati a metà dell’ultimo quarto lo portano a quota 64, ovvero al massimo in carriera. Nell’azione che lo porta a ritoccare il primato per punti segnati in una singola partita c’è anche un particolare curioso: a commettere il fallo sulla tripla tentata da Bryant è Jalen Rose, protagonista dell’infortunio occorso alla guardia dei Lakers in gara-2 delle Finals del 2000. E Kobe, che contro i Pacers aveva giocato sofferente per via della distorsione alla caviglia sinistra, ora deve sopportare un dolore persistente a quella destra. Questa volta Rose non c’entra nulla, perché Bryant si porta avanti quel problema da diverse settimane e la logica, ora che il risultato sembra acquisito e che Kobe ha stabilito un nuovo career high, lo vorrebbe in panchina a riposare e a evitare di aggravare le condizioni della caviglia destra. Solo che lui ha in mente di battere altri due record: il massimo in carriera di Michael Jordan, ovvero 69 punti, e quello di punti segnati con la maglia dei Lakers, che appartiene da quasi mezzo secolo a Elgin Baylor con 71. Detto, fatto: nel giro di 90 secondi Bryant segna due triple e quindi anche il canestro del sorpasso su Baylor a 4:25 dalla fine. Il maxischermo del palazzetto segnala l’impresa storica e i 18.997 spettatori presenti si uniscono in una fragorosa ovazione. Coach Jackson, ancora una volta, lo vorrebbe richiamare in panchina, ma gli basta scambiare uno sguardo con la sua stella per capire che Kobe non è dello stesso avviso. I due non hanno nemmeno bisogno di parlare, anche perché dalla palla a due Bryant non ha praticamente spiccicato parola: non con i compagni, non con gli avversari o nel dialogo con gli arbitri, nulla. Nei minuti che portano alla sirena finale Kobe segna altri 9 punti, di cui 7 dalla lunetta, chiudendo a quota 81 in una serata dove ha tirato 28/46 dal campo e 7/13 da tre. Si tratta della seconda miglior prestazione di sempre dietro solo ai 100 punti firmati da Wilt Chamberlain con i Philadelphia Warriors il 2 marzo 1962. Una prestazione di cui sarà il protagonista stesso a dire: “Quella gara è la prova del potere dell’immaginazione e di cosa succede se non poni limiti a ciò che puoi fare”. E al momento, nonostante la NBA degli ultimi anni viaggi a un numero di possessi a partita molto più alto rispetto a quello del 2006 e l’uso sempre più massiccio del tiro da tre abbia inevitabilmente gonfiato i tabellini dei migliori attaccanti, nessuna tra le stelle in attività sembra ancora aver trovato la forza di immaginarsi una serata del genere. PECHINO 2008: MISSIONE MEDAGLIA D’ORO Tra le qualità per cui Kobe Bryant si è fatto conoscere, c’è anche quella di anticipare il futuro o, meglio, di vedere le cose in anticipo. Sul campo, dove la stella dei Lakers intuisce i movimenti di compagni e avversari prima che avvengano, ma anche lontano dal parquet, dove Kobe dimostra una peculiare capacità di prevedere determinati eventi. Così, quando Bryant accetta di vestire la maglia della nazionale a Pechino 2008 e di diventare il capitano di quello che viene rinominato come il “Redeem Team”, capisce subito che per portare a termine la missione affidata a lui e ai compagni, ovvero riportare l’oro olimpico del basket negli Stati Uniti, si dovrà per forza passare dalla Spagna. Non che Bryant, almeno in questo caso, sia esattamente un veggente, perché gli spagnoli sono i campioni del mondo in carica, ma in corsa ci sarebbero anche altre concorrenti come la Lituania e la Croazia, oltre ovviamente all’Argentina trionfatrice ad Atene quattro anni prima. Per Kobe, però, è chiaro come l’avversario da battere sia la Spagna e al primo confronto diretto, che arriva nella penultima giornata della fase a gruppi, per dimostrare al resto della squadra quanto sia feroce la sua determinazione promette di colpire duro Pau Gasol, compagno di squadra ai Lakers e tra i pochi a potersi considerare amico di Bryant, sul primo possesso della gara. La promessa, tra lo stupore generale di tutti i giocatori in campo, a partire da LeBron James, viene mantenuta, e otto giorni dopo la netta vittoria degli Stati Uniti le due squadre si ritrovano come da pronostico in finale. Bryant, che proprio la sera prima ha compiuto trent’anni ed è stato festeggiato da tutta la squadra, comincia male la partita commettendo due falli veloci, imitato da James. La Spagna, che quanto a talento complessivo rappresenta senza dubbio il meglio del basket mondiale al di fuori degli Stati Uniti, ne approfitta e rimane sempre nella scia degli avversari. Tanto che quando ci si avvicina agli ultimi 3 minuti di gara il punteggio dice 104-99: con gli spagnoli a soli due possessi di distanza, le mani di tanti protagonisti in maglia Team USA cominciano a tremare. Nel roster a disposizione di coach Mike Krzyzewski, d’altronde, oltre a Bryant gli unici ad aver già vinto un titolo NBA sono Tayshaun Prince e Dwyane Wade, guarda caso il migliore fin lì tra gli americani. Ed è proprio la stella dei Miami Heat a penetrare nell’area avversaria mentre Kobe si sbraccia poco dietro la linea dei tre punti per reclamare la palla. L’assist di Wade arriva puntuale e puntuale arriva la tripla con fallo subito, a cui segue un gesto diventato iconico, con Bryant che zittisce pubblico e avversari. L’azione è decisiva non solo perché Kobe segna anche il tiro libero supplementare che fa veleggiare gli Stati Uniti sul +9, quanto perché a commettere il fallo è stato Rudy Fernandez, trascinatore della Spagna con 22 punti e obbligato a uscire perché marcare Bryant l’ha costretto a 5 falli. Gasol e compagni, però, dimostrano di non essere diventati per caso campioni del mondo, e con un controparziale di 5-0 tornano a soli 4 punti di distanza. La finalissima è riaperta e ci sono ancora 2:24 da giocare, quando ancora Wade con un’altra tripla prova ad allontanare lo spettro di una rimonta spagnola. Uno spettro che è di nuovo Bryant a scacciare una volta per tutte con il canestro del 113-105 a 1:11 dalla fine, segnato in mezzo a quattro avversari, e quindi con due liberi che chiudono una prestazione da 20 punti e 6 assist. La Spagna è battuta 118-107 e gli Stati Uniti, che nel momento più delicato si sono affidati a Bryant, evitano una sconfitta che dopo le batoste rimediate ad Atene nel 2004 e ai mondiali nel 2006 avrebbe potuto avere conseguenze incalcolabili, soprattutto dal punto di vista mediatico. E la chiusura perfetta del cerchio, la parola fine alla missione del “Redeem Team”, arriva quando Kobe e compagni corrono a mettere la medaglia d’oro al collo di Doug Collins, a bordo campo per commentare la partite e reduce dall’incubo di Monaco 1972 e dalla controversa sconfitta contro l’Unione Sovietica in finale, forse la pagina più dolorosa nella storia del basket a stelle e strisce. L’ULTIMA IMPRESA: MAMBA OUT Anche quando se si è una leggenda, scrivere il finale della propria storia è complicato e si corre il rischio concreto di ritrovarsi a fine corsa in circostanze assai diverse da quelle desiderate. E il finale di carriera immaginato da Kobe Bryant, in effetti, consisterebbe nell’inseguimento del 6° anello di campione, traguardo sognato per raggiungere l’idolo di sempre Michael Jordan e sentirsi finalmente al suo livello. Le norme, scritte e non scritte, che regolano una lega ultra-competitiva come la NBA, però, sono spietate e una serie di scelte da parte di Bryant e soprattutto da parte dei Lakers rendono irrealizzabile quel sogno. Così a Kobe, dopo l’annuncio del ritiro arrivato il 29 novembre 2015, non resta che salutare il basket con un lungo tour d’addio di cui è protagonista un po’ imbarazzato. Fuori da Los Angeles, gli applausi e i complimenti dei tifosi lo spiazzano perché è abituato a essere fischiato, temuto, detestato. Bryant, in assenza di alternative, si adatta e si accontenta, arrivando tutto sommato con il sorriso sulle labbra all’ultimissima partita, che si gioca il 13 aprile 2016 tra le mura amiche dello Staples Center. L’occasione è di quelle importanti, anzi imperdibili, come testimoniano i biglietti in vendita a più di 25.000 dollari per un posto nelle prime file e i 457 media accreditati e presenti al palazzetto. I cori “Kobe! Kobe!” rimbombano dagli spalti già prima della palla a due e sul parquet sono impressi l’8 e il 24, i due numeri indossati da Bryant nel suo ventennio in gialloviola. Le premesse per quella che vorrebbe essere prima di tutto una festa, insomma, ci sono tutte, ma a rovinare un po’ il clima ci sono due coincidenze. La prima riguarda i Golden State Warriors, campioni NBA in carica che proprio quella sera hanno la possibilità di battere il record di vittorie in regular season sorpassando i Chicago Bulls della stagione 1995-96 e potrebbero distrarre un po’ di attenzione dall’evento in programma a Los Angeles. Quanto a record, invece, quello dei Lakers dice 16-65 ed è il peggiore nella storia della franchigia fin lì. Non solo, nell’ultima partita di Kobe di fronte ci sono gli Utah Jazz, programmaticamente ostili al glamour che caratterizza i padroni di casa e, particolare ancora più importante, a caccia dell’ultimo posto disponibile per i playoff a Ovest. Di conseguenza nessuno si sorprende quando all’intervallo lungo sono gli ospiti a essere avanti 57-42. Dei 42 punti segnati dai Lakers, 22 portano la firma di Bryant, che però pare avere il respiro affannoso e tira 7/20 dal campo. Forse perché, dopo una vita di sforzi immani per rimanere imperturbabile, si sta finalmente abbandonando alle emozioni, o forse perché è davvero vicino ad aver esaurito le energie necessarie per giocare a quel livello. Eppure, negli spogliatoi Bryant sembra trovare una versione cestistica della fonte della giovinezza, perché al rientro in campo inizia subito a deliziare i presenti e chi lo sta guardando su schermi di varie dimensioni in tutto il mondo con un vero e proprio greatest hits del suo repertorio. Utah, che durante la regular season ha avuto la 7° miglior difesa di tutta la NBA, non sa bene che fare e al termine del 3° quarto i punti del grande protagonista della serata sono 37. Solo che i Jazz sono ancora avanti 75-66 e, in fondo, sono in molti a pensare che vada bene anche così. L’eventuale vittoria, d’altronde, per i Lakers avrebbe un valore astratto e Bryant ha già regalato almeno tre o quattro azioni da applausi e pronte a essere riproposte a ripetizione negli highlights della notte. Kobe, invece, non è dello stesso avviso, e con due triple a inizio del 4° quarto ferma il tentativo di fuga operato dagli avversari. Tentativo reiterato poco dopo, quando è ancora Bryant, questa volta con un appoggio al tabellone al termine di uno slalom tra i difensori avversari, a segnare il suo 47° punto e a tenere i Lakers in linea di galleggiamento sul 94-86. Si tratta comunque di un buon vantaggio per Utah, anche perché ora mancano 3 minuti alla fine e se il one man show di Kobe si sta rivelando decisamente all’altezza delle attese, tra i padroni di casa non c’è praticamente nessun altro in grado di mettere punti a tabellino. In teoria, il copione potrebbe anche prevedere l’uscita dal campo del festeggiato e l’ovazione del pubblico e nessuno, davvero nessuno avrebbe da ridire. Bryant, però, non lascia la partita, anzi, dalla lunetta segna i due punti che lo portano a quota 49 e quando si entra negli ultimi 2 minuti di gioco i Jazz, e forse anche gli spettatori presenti, cominciano a fare fatica a comprendere cosa stia succedendo. Kobe, invece, vive gli ultimi 120 secondi della sua carriera in uno stato di semi-trance: per i Lakers tira, e segna, solo lui. Due incursioni nell’area avversaria e una tripla in transizione completano un parziale di 9-0 tutto firmato Bryant con cui i padroni di casa tornano sotto 96-95. Quin Snyder, coach di Utah, chiama time out e le telecamere indugiano su Kobe mentre si siede in panchina, palesemente in debito di ossigeno ma con quello sguardo feroce che il resto della NBA ha imparato a conoscere bene nel corso degli ultimi due decenni. Quando si riprende a giocare Shelvin Mack sbaglia la tripla, D’Angelo Russell prende il rimbalzo e senza nemmeno far finta di voler palleggiare consegna la palla al suo capitano. Se poco prima regnavano la confusione e lo sbalordimento, ora tutti sanno cosa sta per succedere e Bryant non si tira indietro, sfrutta il blocco portato da Julius Randle per liberarsi della marcatura di Gordon Hayward e appena superata la linea del tiro da tre punti fa partire il jumper che porta i Lakers in vantaggio 97-96. Allo Staples Center scoppia un vero pandemonio che coinvolge la moglie Vanessa e le figlie a bordo campo oltre all’immancabile Jack Nicholson, testimone oculare di mezzo secolo di pallacanestro che non può comunque evitare di stropicciarsi gli occhi di fronte alle gesta di Kobe. Gli ultimi due punti della carriera di Bryant arrivano dalla lunetta, proprio come il primo segnato in NBA e datato 5 novembre 1996 al Madison Square Garden contro i Knicks, 7.099 giorni prima, e portano il suo boxscore personale a 60. Utah, dall’altra parte, non segna più e Kobe, con un passaggio a tutto campo, fa in tempo a regalare l’assist per la schiacciata di Jordan Clarkson che chiude la partita. Ora mancano 4 secondi alla fine e il momento è maturo per salutare tutti: coach Byron Scott lo richiama in panchina dopo che Kobe ha giocato tutto il secondo tempo senza mai lasciare il parquet. A 37 anni e 234 giorni, Bryant diventa il giocatore più vecchio della storia a segnare almeno 60 punti, impresa che peraltro aveva già compiuto ben cinque volte nel corso dei vent’anni precedenti. La standing ovation, adesso, sembra non dover finire mai e accompagna Kobe mentre viene travolto dall’affetto dei compagni. Gli abbracci più lunghi, poi, sono quelli con Gary Vitti, l’inseparabile personal trainer diventato uomo di fiducia, e con l’ex amico, poi rivale, poi di nuovo amico Shaquille O’Neal. E sarà proprio Shaq, dopo la partita, a sintetizzare in maniera pressoché perfetta lo spirito con cui Kobe Bryant ha interpretato l’ultima partita della sua carriera: “Prima della gara l’ho sfidato: fanne 50, gli ho detto. Lo s*ro*zo ne ha fatti 60!”.

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