Quando il mondo imparò a conoscere Michael Jordan

Un ragazzo entra in un palazzo indossando una vistosa pelliccia di visone… Sembra l’inizio di una barzelletta da ‘Drive In’, programma comico di culto andato in onda durante gli anni Ottanta, invece è realtà. O meglio, lo era. Perché serve fare uno sforzo con la fantasia e tornare indietro nel tempo, al weekend del 9-10 febbraio 1985, esattamente 40 anni fa. Il ‘palazzo’ in questione era l’RCA Dome di Indianapolis, monumentale impianto da oltre 60mila posti e casa dei Colts, la squadra di football cittadina, poi chiuso nel 2008. Un grande stadio per un grandissimo evento, l’All Star Game NBA del 1985: Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e Akeem Olajuwon da una parte; Larry Bird, Julius Erving e Isiah Thomas dall’altra. E poi c’è lui, il ‘ragazzo con la pelliccia’, alla prima presenza nella partita delle stelle: dai Chicago Bulls, con la maglia numero 23, Michael Jeffrey Jordan. La NBA del 1985 era, nel bene e nel male, molto diversa da quella di oggi. Pochi fronzoli, poco marketing, niente partite tra rookie o gara di skill. Non esisteva nemmeno la gara del tiro da 3 punti, che verrà introdotta dall’edizione successiva del 1986. Solo due eventi: la gara delle schiacciate e la partita tra i migliori giocatori del campionato. Jordan, che di lì a poco avrebbe ottenuto ufficialmente il soprannome di ‘Air’, si era guadagnato la convocazione all’ASG dopo soli quattro mesi dal suo ingresso nella lega grazie a una prima metà di stagione da quasi 27 punti di media e addirittura 18 partite sopra i 30. Prima apparizione in quintetto per la nuova stella di Chicago, a nemmeno 22 anni, sul parquet insieme ai sopra citati Bird, Thomas, Erving, con l’aggiunta del centro Moses Malone. Pezzi pregiatissimi della pallacanestro degli anni Ottanta. Prima però, come detto, c’è in programma la gara delle schiacciate. Tripla catenina d’oro al collo, Jordan 1 nere e rosse ai piedi, e si inizia a volare al ferro. Tra i partecipanti di quell’edizione, considerata una delle migliori di sempre per la qualità dei nomi, anche Larry Nance, Clyde ‘The Glide’ Drexler, Julius ‘Doctor J’ Erving e Dominique Wilkins. Proprio quest’ultimo, stella assoluta degli Atlanta Hawks , aveva un soprannome che rende l’idea delle sue capacità: The Human Highlight Film. Non serve la traduzione per capire le sue abilità con i piedi staccati da terra… Vincerà difatti, dominando quell’edizione in maniera abbastanza netta e ‘lanciando’ un immaginario guanto di sfida proprio a MJ per le edizioni a seguire. E Jordan invece? Secondo in gara, primo sotto i riflettori, come per tutto il resto della carriera. Durante la semifinale infatti lascia pubblico e giudici a bocca aperta esibendosi in una schiacciata saltando dalla linea del tiro libero, un mix di potenza e coordinazione a cui nessuno negli anni Ottanta aveva mai osato pensare. Tempo di un cambio scenico di scarpe e si ritorna sul parquet per l’evento principale del weekend dell’All Star Game 1985. Come detto, Jordan partì in quintetto. Nella stagione da rookie. Una piccola impresa considerando che giocatori incredibili come LeBron James, Kobe Bryant e oggi Victor Wembanyama sono riusciti a essere convocati all'ASG ‘solo’ nel loro secondo anno di carriera. Ma torniamo al campo, che si racconta di una partita molto diversa da quelle a cui siamo abituati oggi. In questo caso, i nostalgici della pallacanestro di qualche decennio fa hanno pienamente ragione. In quegli anni si giocava davvero, non si lesinavano colpi, difese serrata e qualche faida personale. Come il cosiddetto ‘Freeze Out’ riservato al giovane MJ da parte di Isiah Thomas, suo compagno nel back-court della selezione della Eastern Conference ma leader dei futuri ‘Bad Boys’ di Detroit, i rivali per antonomasia dei Chicago Bulls a fine anni Ottanta. Per dirla in parole semplici: Thomas, in maniera nemmeno troppo velata, non passava la palla a Jordan. La colpa? Aver riportato l’amore per il basket a Chicago, città natale di ‘Zeke’, e averlo scalzato come idolo cestistico locale. Le cronache del tempo raccontano che nemmeno gli altri giocatori dell’Est volevano passare la palla a Jordan, convinti sempre dal playmaker dei Pistons, perché c’erano delle gerarchie da rispettare e il ragazzino, in rapidissima ascesa, doveva guadagnarsi sul campo i galloni di superstar. Insomma, dopo i fasti della gara delle schiacciate il giovane ‘Air’ ha dovuto subire una bella dose di nonnismo. Ma si parla pur sempre di Michael Jordan: 7 punti, 6 rimbalzi e nonostante tutto, 9 tentativi di tiro presi in 22 minuti sul parquet. Le azioni salienti di quella partita, che si possono trovare su YouTube, sono in puro stile ‘Jordanesco’: dribbling su Magic Johnson e schiacciata a due mani testa al ferro, tap-in con rimbalzo su Kareem Abdul-Jabbar, penetrazioni contro tutta la difesa della Western Conference schierata e addirittura una stoppata su Ralph Sampson, centro degli Houston Rockets di 224 centimetri. Un assaggio del suo repertorio, di quello che sarebbe stato nei 12 All Star Game giocati da quel weekend in poi e nel resto della carriera. Rientrato a Chicago, alla prima partita dopo la pausa per l’ASG, Jordan segnò 49 punti, punto esclamativo di una stagione da rookie dominata dall’inizio alla fine. Fu anche il suo season-high di quell’anno. Ah sì, gli avversari? I Detroit Pistons di Isiah Thomas. Qualcuno evidentemente, quel ‘Freeze-out’ l’aveva proprio preso sul personale. Chissà quanti dei tifosi presenti quel weekend al RCA Dome di Indianapolis, vedendo quel ragazzo con la pelliccia, si sono resi conto di essere stati testimoni della storia della NBA.

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Quando il mondo imparò a conoscere Michael Jordan

Simone Dagani