"I'm back": Michael Jordan e quel fax che ha cambiato il mondo dell'NBA

Alla domanda ‘può un fax cambiare il mondo?’, o almeno quello dello sport, chi appartiene alle generazioni più recenti potrebbe comprensibilmente sorridere e ribattere con un’altra domanda, ovvero: ‘cos’è un fax?’. Questione più che legittima, visto che si tratta ormai di un orpello del passato quasi remoto. Eppure, nel 1995 quel vecchio aggeggio elettromeccanico è ancora parecchio in voga. Anzi, considerando che Internet è una rete accessibile a pochissimi e quasi del tutto sconosciuta alla maggioranza della popolazione mondiale, il fax rappresenta per distacco il mezzo di comunicazione scritta più diffuso in ogni angolo del pianeta. E quindi sì, nel 1995 un fax poteva cambiare il mondo, o almeno quello dello sport, e l’ha fatto il 18 marzo di 30 anni fa. I’M BACK, JORDAN SCONVOLGE IL MONDO Per cambiare, o quantomeno scuotere dalle fondamenta il mondo dello sport, bastano poche righe, costituite da una breve premessa , seguita da una dichiarazione tanto secca quanto chiara: “I’m back”. Quell’affermazione, con il tempo, diventerà oggetto di analisi da parte di studiosi e esperti di comunicazione, e il fax che la contiene si trasformerà in un autentico cimelio, ma il 18 marzo del 1995 quelle parole hanno un solo, inequivocabile significato: Michael Jordan è pronto a tornare a giocare a basket. Quel basket abbandonato diciotto mesi prima, con il ritiro annunciato il 6 ottobre del 1993, quando la stella dei Bulls era all’apice della carriera ma probabilmente al punto più basso della vita personale, con l’omicidio del padre James e le voci sempre più insistenti su una presunta, e assai onerosa, dipendenza dalle scommesse a metterlo in contatto con personaggi e ambienti poco raccomandabili. Il 18 marzo del 1995, però, quelle parole, “I’m back”, segnano la rinuncia definitiva al tentativo da parte di Jordan di reinventarsi come giocatore di baseball, sogno inseguito in parte per rendere omaggio proprio al padre, grande appassionato del ‘passatempo americano’ per eccellenza, mettendo inoltre a tacere le speculazioni scatenate dalla decisione di Michael, la cui popolarità non è stata affatto scalfita dall’anno e mezzo lontano dai parquet, di tornare ad allenarsi con la squadra arrivata qualche settimana prima. E quelle parole, oltre a chiudere la parentesi del primo ritiro di Jordan, aprono anche la seconda fase della sua carriera, che dovrà però scontare un inizio parecchio in salita. IL 23 NON È IL 45 Il finale della storia è noto ed è stato raccontato un’infinità di volte, con il secondo threepeat dei Bulls a garantirgli l’immortalità cestistica, ma per tornare ai vertici della NBA Jordan deve passare attraverso l’esperienza da lui più detestata: la sconfitta. Fin da subito, perché il fax del 18 marzo anticipa di un solo giorno l’effettivo rientro in campo. Il 19, infatti, Chicago è in trasferta a Indianapolis e siccome Jerry Reinsdorf, proprietario della franchigia, nonostante il ritiro ha deciso di non rescindere il contratto con Jordan, continuando di fatto a pagargli lo stipendio anche mentre era impegnato con il baseball, Michael può essere subito reintegrato in squadra. C’è però un problema, perché i Bulls, convinti che la decisione di Jordan di abbandonare il basket fosse definitiva e irrevocabile, nel frattempo gli hanno dedicato una statua fuori dal palazzetto di casa e soprattutto hanno ritirato il suo numero 23. Per giocare contro i Pacers, quindi, Michael deve scegliere un nuovo numero e opta per il 45 indossato anche durante l’avventura sul diamante con i Birmingham Barons. Che quello con il 45 non assomigli molto al Jordan che tutti hanno conosciuto fin lì lo si capisce all’istante, perché a Indianapolis i Bulls perdono al supplementare e lui, mettendo in mostra una condizione fisica ancora precaria, tira con un inusuale 25% dal campo. La condizione fisica, così come il ritmo partita, Michael li recupera nell’ultimo mese di regular season, ma il 5° posto a Est, dopo un primo turno piuttosto facile contro Charlotte, impone a Chicago l’incrocio con i Magic di Shaquille O’Neal e Anfernee 'Penny' Hardaway, destinati ad approdare alle prime Finals nella storia della franchigia. E contro Orlando riemergono pecche inconsuete per Jordan, insieme alla questione del numero di maglia. È una sua palla persa nel finale di gara-1, infatti, a indirizzare la serie. Nick Anderson, autore della rubata ai danni di Jordan, subito dopo la partita cattura l’essenza del momento con un’altra frase destinata a passare alla storia: “Il 45 non è il 23, non sarei mai riuscito a fare una cosa simile al 23”. Jordan, pagando la multa di 25.000 dollari comminatagli dalla NBA, si presenta con il vecchio 23 in gara-2, ma il ritorno al passato non basta perché a superare il turno sono i Magic, che chiudono con un 4-2 che non lascia spazio a dubbi o recriminazioni. E così il 18 maggio, a due mesi esatti dal suo clamoroso ritorno in campo, Jordan e i Bulls perdono gara-6 tra le mura amiche dello United Center, rafforzando la convinzione dei tanti che, a prescindere dal numero indossato, sostengono che Michael non sia più il giocatore di prima. TRE ANNI PER SCRIVERE LA LEGGENDA DI MJ Come già detto, chi nella tarda primavera del 1995 perora la causa di un Jordan se non finito, di certo non più virtualmente imbattibile come prima del ritiro, verrà smentito a stretto giro. I tre anni che seguono all’eliminazione per mano di Orlando, infatti, sono una corsa forsennata in cui si susseguono la vittoria del 1996 sui Sonics, arrivata nel giorno della Festa del Papà e inevitabilmente dedicata al padre, il successo cinematografico planetario con ‘Space Jam’, le due sfide contro Utah, con il leggendario ‘Flu Game’ del 1997 e l’epica conclusione con il canestro che sigilla il secondo threepeat a Salt Lake City nel 1998 e quindi la chiusura, parecchio controversa, dell’epopea ai Bulls al fianco di Scottie Pippen e sotto la guida di Phil Jackson. A dire il vero, ci sarebbe anche il secondo rientro dal ritiro, decisamente meno solenne rispetto a quello precedente, nel settembre del 2001 e ci sarebbero anche i record inanellati ad oltre quarant’anni con la maglia di Washington, epilogo di un’avventura che ha in quelle parole, “I’m back”, uno snodo decisivo e che anche a distanza di trent’anni continua a rimanere del tutto indimenticabile.

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