Il momento di Cooper Flagg: sarà lui il nuovo uomo simbolo della NBA?

In qualche modo si può azzardare che la carriera in NBA di Cooper Flagg sia iniziata con quel tiro sbagliato a 8 secondi dal termine della sfida contro Houston, di fronte ai 68.252 spettatori assiepati, nel vero senso della parola, sugli spalti dell’Alamodome di San Antonio. Un errore, quello della stella di Duke, poi costato ai Blue Devils una clamorosa sconfitta e l’eliminazione dalle Final Four in uno degli epiloghi più rocamboleschi della storia del basket. Un errore arrivato dopo che nel time out precedente all’azione, coach Jon Scheyer gli aveva chiesto senza tanti preamboli: “Sei pronto? Vai e prenditi la partita”. Già, perché era scontato che quel tiro sarebbe toccato a Flagg, vero e proprio predestinato e quindi accompagnato da attese grandi quanto le responsabilità che è stato chiamato a prendersi e che dovrà prendersi ancor di più in futuro. Un errore che gli è costato critiche anche feroci, perché un canestro avrebbe quasi certamente riportato Duke a giocarsi il titolo NCAA dopo dieci anni, e che ha fatto assaggiare alla probabilissima prima scelta al prossimo Draft la pressione mediatica con cui si troverà ad avere a che fare tra pochi mesi. Un errore che ha insomma dato a Flagg un’idea abbastanza precisa di ciò che lo attende non appena sarà diventato un giocatore della NBA, ma a cui, poco più che diciottenne, ha reagito nel modo migliore possibile. Subito dopo la batosta subita per mano dei Cougars, ai cronisti che non potevano esimersi dal chiedergli dell’errore fatale, lui ha risposto senza esitazioni: “Quello è un tiro che prenderei ancora”. UN’ANNATA DA PROTAGONISTA ASSOLUTO Il suo nome compariva da tempo in cima ai Mock Draft riguardanti la classe del 2025, ma la prima e, salvo sorprese, unica stagione a Duke, al di là del finale amaro, non ha fatto che ribadire quanto già si sapeva a proposito del talento unico di Flagg. Dopo aver trascorso l’estate scorsa preparandosi al grande salto dall’high school all’università, e facendo tra l’altro anche da sparring partner alla versione di Team USA guidata da LeBron James e Steph Curry che avrebbe poi trionfato a Parigi durante il training camp di Las Vegas, Flagg è stato il protagonista assoluto della stagione del college basket. Non è un caso, infatti, che sia stato solo il quarto esordiente nella storia della NCAA a vincere il Naismith Men’s College Player of the Year. Prima di lui, giusto per dare un’idea di quale sia la ‘stirpe’ da cui discende l’ala dei Blue Devils, c’erano riusciti Zion Williamson, Anthony Davis e Kevin Durant. Un riconoscimento, quello ottenuto da Flagg, arrivato al termine di un’annata in cui ha guidato la squadra per punti , rimbalzi , assist , palle rubate e stoppate di media a partita. Al netto delle statistiche in sé, a cui andrebbe aggiunto anche un 38.5% di media al tiro da tretutt’altro che secondario, Flagg ha soprattutto dimostrato di avere la rara capacità di essere spettacolare, molte delle sue giocate sono finite in highlights circolati un po’ ovunque, e allo stesso tempo tremendamente concreto, mettendo in evidenza la volontà di fare anche le piccole cose che servono per vincere le partite e non finiscono nel tabellino personale o negli highlights di cui sopra. Perché vincere, per Flagg, pare essere un’autentica ossessione. Un tratto caratteriale, la spiccata competitività, che non è sfuggito ai tanti osservatori e dirigenti delle squadre NBA che sognano di portarselo in squadra dal prossimo giugno. CHE GIOCATORE È FLAGG, CHE GIOCATORE PUÒ DIVENTARE C’è una cosa su cui compagni, avversari, allenatori e un po’ tutti coloro che hanno avuto a che fare con Flagg fin dai tempi degli esordi alla Nokomis Regional High School concordano: quando si è in campo, meglio non rischiare di far arrabbiare Cooper. La probabile prima scelta al prossimo Draft, infatti, pare disporre di un interruttore che, se azionato, è in grado di fargli cambiare all’istante umore nel corso di una partita. E le conseguenze di questo cambio repentino d’umore, di solito, non sono affatto simpatiche per gli avversari. I paragoni più ovvi, quindi, sono in questo senso con giocatori come Michael Jordan e Kobe Bryant, che dell’uso, e a volte anche dell’abuso di quell’interruttore hanno fatto una delle loro peculiarità più note e celebrate. Dal punto di vista tecnico, però Flagg ha caratteristiche molto diverse dalle leggende di Bulls e Lakers e, sotto molti aspetti, uniche nel loro genere. Premesso, per quanto ovvio, che a diciotto anni Flagg è tutt’altro che un giocatore fatto e finito, l’annata in NCAA ha messo in evidenza alcune doti già spiccate. Nella metà campo amica la stella di Duke ha tempi quasi perfetti e una sorprendente facilità nell’intuire come e dove muoversi, sia nel posizionamento in fase di difesa statica che nel portare gli aiuti ai compagni. Flagg vanta poi una mobilità di piedi non comune per un’ala di 206 centimetri, altezza che peraltro potrebbe anche venire ritoccata dall’ultimo scampolo di età della crescita. Un particolare, quest’ultimo, che insieme a un controllo del corpo quasi sbalorditivo per un ragazzo così giovane gli permette di rimanere accoppiato con le guardie avversarie e che gli tornerà utilissimo in un contesto NBA che ormai vive di cambi sistematici in difesa. In attacco, poi, Flagg abbina un repertorio completo, fatto di esplosività atletica in contropiede o nell’attaccare il ferro ma anche di pericolosità dal perimetro, alla capacità di avere un impatto sulla partita anche senza dover necessariamente tenere la palla in mano. Un’altra caratteristica che dovrebbe facilitarne da subito l’inserimento in meccanismi tattici dove la presenza di altri ball-handler renderebbe viceversa complesso il suo adattamento. Non è quindi un caso che i paragoni con stelle del presente e del passato, che per prospetti come Flagg non mancano mai, vadano da specialisti difensivi come Andrei Kirilenko a modelli dell’interpretazione moderna del ruolo di point-forward come Jayson Tatum fino ad autentiche leggende come Scottie Pippen e Kevin Garnett. Ed ecco perché tutte, ma proprio tutte le squadre che escono da questa stagione con poche soddisfazioni e la speranza di riscattarsi al Draft sognano di poter chiamare il suo nome il prossimo 25 al Barclays Center di Brooklyn. DOVE POTREBBE FINIRE FLAGG Nelle scorse settimane erano circolati dubbi, alimentati da una sua battuta raccolta in un lungo profilo dedicatogli da ‘The Athletic’, sull’effettiva intenzione di Flagg di rendersi eleggibile al Draft e viceversa rimanere un altro anno a Duke. Una scelta a dir poco insensata dal punto di vista economico, in grado di generare una perdita di potenziali guadagni attorno ai 100 milioni di dollari e che avrebbe avuto del clamoroso, motivata secondo qualcuno dal timore di finire in una squadra poco attrezzata a favorirne il percorso di carriera. A smentire tutto ci ha pensato lo stesso Flagg dopo l’eliminazione nella semifinale delle Final Four, ribadendo la piena apertura a giocare per qualsiasi franchigia NBA lo vorrà scegliere tra poco più di due mesi. Tra le candidate principali a vincere la Lottery del prossimo 12 maggio, d’altronde, anche chi in passato ha accumulato discreti disastri nella costruzione del roster come Charlotte o Washington sembra poter offrire la prospettiva di una svolta dopo i recenti cambi di proprietà e di dirigenza. E proprio gli Hornets e gli Wizards, insieme ai Jazz, seguiti a breve distanza da Pelicans e Sixers, secondo gli automatismi stabiliti dalla NBA avrebbero al momento le maggiori possibilità di assicurarsi la primissima chiamata. In attesa di conoscere quale maglia, e ancora prima quale cappellino, come da tradizione sul palco del Draft, indosserà a fine giugno, una cosa appare già certa: oltre a diventare pressoché all’istante il franchise player della sua nuova squadra, Flagg ha ottime possibilità di diventare l’uomo simbolo di tutta la lega. I REQUISITI PER ESSERE UOMO SIMBOLO Anche se la vecchia guardia non sembra avere poi tutta questa fretta di cedere il passo, il passaggio di testimone da parte dei vari LeBron James, Steph Curry e Kevin Durant con i loro possibili eredi nel ruolo di ambasciatori della NBA appare ormai inevitabile. E, ora come ora, il casting effettuato tra i nuovi talenti generazionali ha portato poche certezze. Ja Morant e Anthony Edwards, in pole position fino ad un paio d’anni fa, sono usciti di scena o quasi a causa di prestazioni insufficienti sul campo e, soprattutto nel caso del primo, di comportamenti lontano dal parquet assai poco in linea con quanto il ruolo richiederebbe. Alle superstar al picco di carriera come Nikola Jokic, Shai Gilgeous-Alexander e in parte Giannis Antetokounmpo, poi, il ruolo non sembra interessare granché. Su Victor Wembanyama, a sua volta accolto con l’attenzione degna dei predestinati al suo sbarco nella lega meno di due ani fa, gravano l’incognita relativa al precario stato di salute e, al pari degli altri tre, una condizione di partenza che, anche in una realtà ormai globalizzata come la NBA, continua a rappresentare un difetto o quantomeno un limite: il fatto di non essere americano. E in questo momento se non di vuoto diciamo così di incertezza potrebbe inserirsi proprio Flagg, che sulla carta presenta tutti i requisiti necessari per diventare la faccia della NBA. Prima di tutto perché arriva da una famiglia in cui il basket è di casa, entrambi i genitori hanno giocato a livello universitario, e anche se questo non rappresenta necessariamente una garanzia di successo, di solito il fatto di essere cresciuti in un ambiente in cui la vita da atleti fa parte della quotidianità aiuta parecchio a mantenere l’equilibrio senza farsi travolgere dalla fama. L’etica lavorativa fin qui mostrata da Flagg, irreprensibile negli allenamenti e animato da un sano rigetto del concetto di sconfitta, ne è la controprova. Anche dal punto di vista mediatico, poi, il fatto di avere una ‘origin story’ decisamente particolare, con il Maine, realtà molto periferica e a tanti quasi del tutto sconosciuta a rappresentare il luogo di provenienza e un gemello, Ace, che al contrario di Cooper non ha deciso di saltare l’ultimo anno di college perché dotato di un talento decisamente più modesto ma che potrebbe anche raggiungerlo in NBA nei prossimi anni, lo rende soggetto assai appetibile per la cosiddetta ‘narrative’ a cui ormai ogni atleta di alto livello non sembra potersi sottrarre. Non stupisce, quindi, che Flagg abbia un rapporto già solido e avviato da tempo con la Creative Artists Agency, agenzia che cura tra gli altri gli interessi di colleghi come Chris Paul, Donovan Mitchell e Paul George. Così come non stupiscono i ricchi accordi commerciali già stipulati con New Balance, che punta chiaramente su di lui per rilanciare le proprie quotazioni in ambito NBA, Gatorade e Fanatics, primi nomi di una lista di sponsor destinata giocoforza ad allungarsi. Anche se utilizza i social solo per lo stretto necessario, Cooper vanta già più di un milione di followers su Instagram, e anche in questo caso il numero pare destinato a crescere già nell’arco dei mesi a venire. Il suo temperamento lontano dai campi da gioco, caratterizzato da una riservatezza a volte ai limiti della timidezza, sensazione del tutto sconosciuta quando è sul parquet, potrebbe infine rappresentare l’elemento caratteristico in grado di distinguerlo dalla maggior parte di colleghi e coetanei. Le premesse affinché Flagg diventi il nuovo volto della NBA, insomma, sembrano esserci davvero tutte. Ora resta solo da stabilire la prossima tappa del suo percorso, iniziato da Newport, paesino da poco più di 3.000 abitanti, proseguito con lo stop in uno degli atenei americani più prestigiosi e ora avviato verso un traguardo ambizioso e allo stesso tempo raggiungibile: la conquista della lega più competitiva al mondo e degli appassionati di tutto il pianeta.

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Dario Costa