Il talento troppo gentile di Asafa Powell

Se Walt Dysney si fosse occupato di atletica leggera, avrebbe avuto pochi dubbi sul ruolo di Paperino: Asafa Powell, lo sprinter giamaicano dallo sguardo gentile e il sorriso dolente, sarebbe stato perfetto per interpretare il papero simpatico e sfortunato. Fortissimo e talentuoso, quattro volte primatista del mondo dei 100, distanza corsa per 97 volte sotto i 10 secondi , 14 anni di fila con primato stagionale con il 9 come prima cifra. Eppure, simili pazzeschi numeri non si sono mai tradotti in vittorie nelle grandi occasioni: nessuna medaglia olimpica a livello individuale, solo un paio di medaglie bronzo ai mondiali. Come se ai grandi appuntamenti il ragazzo di Spanish City, facesse emergere gli insegnamenti ricevuti da bambino: figlio di due ministri di culto della chiesa locale, cristiano devoto, agli avversari ‘porgeva l’altra guancia’, cioè il suo lato debole. Se in palio c’era un titolo il dottor Jekyll che dominava i meeting diventava il Mister Hyde timoroso a fianco di avversari neanche accostabili al suo talento. Blow up emblematico ad Osaka, mondiale del 2007. Asafa grande favorito per distacco: è il primatista del mondo, l’anno prima per i suoi record la federazione l’ha proclamato atleta dell’anno. Ma ai blocchi di partenza sulla sua faccia è già disegnata la sconfitta: si presenta avvolto da litri di sudore, un irriconoscibile straccio bagnato. Finisce terzo in 9.96, oltre due decimi peggio del suo record, nella gara vinta dall’americano Tyson Gay in 9.85. Come se in pista si fosse presentato un suo parente, e non è una battuta: viene preceduto anche dal bahamense Derrick Adkins, che per strani incroci caraibici è suo cugino in secondo grado. Quel giorno Asafa è l’alunno bocciato non per mancanza di studio, ma perché emozionato di fronte al professore. Lo dimostra due settimane dopo a Rieti, nel rilassante paesaggio della Sabinia. Privo di pensieri e pressioni, corre la semifinale senza neppure spingere fino al traguardo: 9.74, altro primato del mondo. Festeggia modo suo, trovando un albero fuori dallo stadio e addormentandosi sotto le foglie nella dolcezza dell’ombra. Atleta favoloso, struttura potente ma dalla corsa elegante, piedi che pennellano più che calpestare la pista. Non ha ancora 22 anni quando lo danno tra i candidati per l’oro olimpico ad Atene: 9.91 per vincere i campionati giamaicani, poi in Grecia miglior tempo in semifinale. Al momento decisivo, evapora e termina quinto, filo conduttore di una carriera. Pochi giorni dopo, al memorial Van Damme, stabilisce il primato giamaicano in 9.87: troppo tardi. La storia si ripeterà sempre eguale, Asafa vince a Bruxelles e a Zurigo, a Roma e Losanna, a Stoccolma e a Oslo: imbattibile nei meeting, dove accumula l’enciclopedico numero di 35 vittorie, all’appuntamento con la storia si batte da solo. Rischia di farlo anche ai Giochi del Commonwealth, la manifestazione del vecchio Impero Britannico: in semifinale si distrae e corre l’ultima parte di gara nella corsia vicina, non viene squalificato solo perché l’avversario è troppo indietro per venire danneggiato, almeno quella volta salva l’oro. Stabilisce il suo primo primato del mondo ad Atene, 9.77 nel 2005, lo eguaglia l’anno dopo a Gateshead e poi a Zurigo, prima del già citato 9.74 di Rieti. Dal trono mondiale lo fa alzare Usain Bolt, connazionale cui è legato da grande amicizia: ruoli precisi, uno vince, l’altro ha il sorriso soddisfatto di chi è contento di arrivargli in scia. Come a Berlino, mondiale 2009, Bolt a scrivere la storia con il 9.58 che nessuno ha neanche soltanto avvicinato, Asafa terzo in 9.85: come liberato dal peso del pronostico non aveva mai corso così forte una finale di una grande manifestazione, era andato così forte. L’anno prima, Olimpiadi di Pechino, di nuovo fuori dal podio, quinto in 9.95. Bolt era imprendibile, ma lui quell’anno per sette volte era andato sotto i 9.90 e ognuno di quei tempi sarebbe stato sufficiente per l’argento. Carriera lunghissima, terminata nel 2022 a 40 anni. Fa ancora in tempo a perdere pure il titolo mondiale indoor dei 60 metri a Portland nel 2016, alla solita maniera: 6.44 senza sforzo in batteria e poi in semifinale, ma appena 6.50 in finale, all’americano Trayvon Brommell basterà 6.47 per batterlo. E’ il 2016, ha 34 anni, ma almeno arriva la prima medaglia olimpica della carriera: oro in staffetta con la Giamaica dell’amico Bolt. Aveva vinto pure nel 2008 a Pechino, ma la positività del compagno Nesta Carter aveva cancellato il titolo, mentre nel 2012 a Londra, altro oro dei compatrioti di Bob Marley, non aveva potuto gareggiare per l’infortunio nella gara individuale: poteva capitare solo a lui. Ha guadagnato abbastanza per coltivare il costoso hobby delle auto di grossa cilindrata, è rimasto sereno anche quando la vita gli ha inflitto dolori che vanno oltre una sconfitta in pista: un fratello morto di leucemia, un altro stroncato da un infarto mentre giocava a football americano. A lui restano, sparsi tra Stati Uniti, Europa e Australia, i record dei 100 su 11 piste diverse, a noi l’immagine di un talento troppo gentile per coltivare la giusta rabbia di chi insegue il primo posto.