C'è un paradenti che decide le sostituzioni nel rugby

Arbitro, sostituzione: il pilone esce. L’ha deciso il paradenti. Le cose nel rugby da un po’ di tempo possono pure andare così. I cambi sono suggeriti da questo piccolo oggetto che un tempo si portava solo sul ring nei match di boxe e aveva uno scopo estetico: evitava di farti tornare a casa senza un incisivo. Da un anno il rugby ha aggiunto sostanza al suo utilizzo, a tutela della salute di giocatori e giocatrici. ‘Concussion’, dicono in America per il football americano. Il paradenti intelligente del rugby serve a individuare il pericolo silente di una commozione cerebrale. Al suo interno monta un microchip che misura le accelerazioni fuori norma della scatola cranica. Tutto ciò che è anomalo fa scattare un allarme e attiva l’Head Injury Assessment , il protocollo per la valutazione degli infortuni alla testa, con l’intervento di un team medico indipendente sistemato a bordo campo. Quando il sistema fa partire un alert, l’équipe avverte i responsabili medici della squadra e gli arbitri: basta così, devi uscire dal campo e farti visitare. Il regolamento consente una sostituzione temporanea che diventa permanente una volta trascorsi 12 minuti di tempo effettivo. A preoccuparsi di mettere il rugby al riparo dalle insidie che il football americano vive quotidianamente è stato un gruppo di lavoro a Boston nell’estate del 2023, quando diversi esperti di infortuni al cervello fecero pervenire alla federazione internazionale le raccomandazioni sulla necessità di adottare un dispositivo di prevenzione. Secondo World Rugby, i paradenti devono essere raccomandati a tutti i livelli del rugby come strategia a lungo termine contro le malattie neurodegenerative. I primi dati scientifici raccolti dimostrano che i paradenti riducono l’ipotesi di commozioni cerebrali fino al 20%. Quando un giocatore o una giocatrice entrano nel protocollo HIA, devono osservare un periodo di riposo lungo 21 giorni. World Rugby ha investito 2 milioni di euro per sostenere economicamente le federazioni di tutto il mondo nell’utilizzo dei paradenti con il microchip e per imparare a leggere i dati registrati. La Nazionale femminile italiana è stata tra le prime a testarlo in una partita del WXV contro il Giappone. L’incidenza della tecnologia Fu il ciclismo, quarant’anni fa, a immaginare che la tecnologia potesse diventare un fattore. Francesco Moser andò a battere il record dell’ora in altura a Città del Messico facendo leva sugli studi del professor Conconi, montando le prime ruote lenticolari e indossando un body corto che lasciava libere le gambe e le braccia, per disperdere la maggiore quantità di calore prodotta dallo sforzo. Aveva montato rapporti considerati folli: un 56 per 15 da 8,07 metri per pedalata per il primo tentativo, un 57 per 15 con la moltiplica piena nel secondo. La Gazzetta scrisse che il suo primato di 51.151 km orari sarebbe stato alla portata solo di un atleta integro, fortissimo nel fisico e nel morale, sano dalla punta dei capelli alla punta dei piedi e di nuovo stracarico di energia come un purosangue. Quando di tanti studi e di tanta tecnologia il ciclismo cominciò ad abusare, quando finì vittima di apprendisti stregoni, la tecnologia si mise al servizio della salute dei corridori. Nacque così il protocollo per la salute che escludeva i ciclisti dalle gare quando fosse stata superata la soglia del 50 percento per l’ematocrito. Era considerata una soglia a rischio, l’indizio di uno stato di salute pericoloso. I paradenti del rugby hanno la stessa funzione di prevenire, e allo stesso modo stanno innescando polemiche. Registrano ogni impatto superiore ai 5g. Un paio di mesi fa, per una segnalazione del sistema, il giovane centro del Tolosa Paul Costes ha dovuto lasciare il campo durante il secondo tempo della partita contro il Pau. Costes uscì dal campo esterrefatto. Non ricordava nessun contatto, eccetto uno la settimana precedente, quando per gioco in allenamento aveva colpito il pallone con la testa. Scott Barrett degli All-Black, capitano dei Crusaders, ha protestato quando due giocatori coinvolti in uno scontro - il compagno di squadra Quinten Strange e Anton Lienert-Brown dei Chiefs, sono stati portati entrambi fuori dal campo. Un’esagerazione, l’ha chiamata. I due non presentavano alcun sintomo preoccupante. Ma la tecnologia questo fa, il paradenti intelligente questo deve fare. Deve arrivare prima dei sintomi, deve lanciare un allarme prima che sia tardi. Riuniti a Lisbona a fine ottobre per la conferenza medica annuale di World Rugby, gli esperti scientifici hanno rivelato alcune statistiche interessanti. Nei primi nove mesi di utilizzo, i microchip hanno registrato 156.000 accelerazioni alla testa di uomini e donne, attivando 116 avvisi ai medici: significa uno ogni 1.351 casi. Entro un anno gli scienziati avranno circa un milione di registrazioni a loro disposizione. Un'opportunità gigantesca per il rugby. Non tutti portano ancora il paradenti intelligente, fortemente consigliato ma non obbligatorio. C’è chi lo trova scomodo: per abitudine o per qualche occlusione dentale. Secondo le statistiche a disposizione di World Rugby, ancora un 20-25% di atleti ne fa a meno. Altri ne mettono uno personale, ma di quelli senza microchip e senza che sia stato disegnato grazie all'impronta 3D del morso. World Rugby ha deciso che chi ne fa a meno non è autorizzato a beneficiare del protocollo sulle commozioni cerebrali nella sua interezza. In caso di sospetta commozione cerebrale, viene dunque allontanato definitivamente dal campo, senza possibilità di tornare in gioco. Romain Loursac, ex giocatore, ora medico del Lione, ha detto al quotidiano francese L’Équipe: “È innegabile che la qualità dei paradenti personali non è ottimale rispetto a quelli confezionati su misura dai dentisti con il chip. Nel punto in cui si trova l'accelerometro, produce un fastidioso rigonfiamento. Ma per convincere i più riluttanti, dico loro che è meglio perdere un dente che il cervello”.

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Lavinia Esposito