Michele Lamaro: "Io capitano, orgoglioso dell'Italia e di essere italiano"

Michele Lamaro, prima di tutto un po’ di buone maniere. Come stai? Come procede il recupero dall’infortunio alla spalla? "Bene dai. Ormai sono passate quattro settimane, c’è ancora un po’ di fastidio ma sento di essere a buon punto. In questi giorni sto ricominciando gli allenamenti con i compagni e conto di tornare disponibile a breve. Questo è il piano". Per il Sei Nazioni ci sarai? Dopo l’uscita dal campo contro la Georgia c’era stata un po’ di preoccupazione… "Ho capito subito che non era una normale botta. L’idea di operarsi faceva un po’ paura, più che altro perché andare sotto i ferri è sempre una situazione spiacevole, i tempi di recupero si allungano. Fortunatamente siamo riusciti a scongiurare l’ipotesi di un intervento chirurgico già nei giorni successivi all’infortunio". Chiusa la parentesi sanitaria, come giudichi il tuo 2024? Sia a livello di club che in Nazionale. Facciamo finta che l’infortunio non sia mai esistito, immagino ti lasci un po’ di amaro in bocca chiudere l’anno così. "Quello di sicuro. Per il resto il bilancio del 2024 è ottimo. Difficile avere un anno migliore, almeno per quanto mi riguarda. Abbiamo raggiunto dei bei risultati con la Nazionale, impossibile non menzionare il Sei Nazioni. La tournée estiva poteva di certo andare meglio: con Samoa avremmo anche potuto vincere ma con il Giappone è stata una partita di altissimo livello. Anche con Treviso ci siamo dati molto da fare: quarti di finale in campionato e semifinale in coppa. L’inizio di campionato con il club è stato un po’ altalenante, è vero, dobbiamo lavorare ancora tanto per poter raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Personalmente il 2024 è stato più che positivo. Si può fare sempre meglio ma sia con Treviso che con l’Italia mi sono sentito al centro del progetto". Tirate le somme dell’anno che sta finendo, un augurio per il prossimo? Che 2025 sarà? "Sportivamente l’augurio è di continuare con questo trend, sia con Treviso che con la Nazionale. Quindi cercare di essere sempre competitivi, consolidarci come una squadra in grado di giocarsela contro chiunque, di poter mettere in difficoltà ogni avversario se riusciamo a eseguire bene le nostre cose. Nel 2025 sarà importante certo migliorare, ma anche consolidare lo status. Ci sarà da lottare, certo, ma la cosa non mi spaventa". Nuovo anno, nuovo corso. Dallo scorso gennaio sulla panchina azzurra c’è Quesada. Cosa trovi sia cambiato rispetto alla gestione di Crowley? "Un nuovo Ct vuol dire nuove idee e nuovi punti di vista. Quello che non è cambiato è stata la nostra identità. Ricordarsi il percorso fatto finora è stato fondamentale, ricominciare da zero avrebbe avuto poco senso. Siamo ripartiti da una base solida e abbiamo consolidato quello che già avevamo di nostro, lavorandoci sopra. Quesada è stato molto bravo da questo punto di vista, stimolando la nostra competizione verso l’esterno ma anche tra noi compagni. Così facendo ci ha resi tutti quanti più responsabili, più motivati l’uno con l’altro e consapevoli del percorso che possiamo e vogliamo fare". Da capitano, qual è il tuo rapporto con il Ct? "Non è cambiato. Con la Nazionale si hanno pochi giorni di lavoro a disposizione. È fondamentale che sia un rapporto, magari non giornaliero ma settimanale, dove si forniscono tanti feedback, dove ci si confronta e ci si supporta a vicenda. Proprio per il poco tempo che abbiamo serve capire quali sono le necessità di ognuno e muoversi per trovare delle soluzioni efficaci in maniera rapida". Allargando il punto di vista, come vedi il movimento del rugby italiano? Le nuove generazioni fanno ben sperare per il futuro? "È fuori discussione che ci siano tanti talenti nelle selezioni giovanili. Le accademie hanno fatto e stanno facendo un ottimo lavoro. Basta vedere quanti ragazzi sono stati chiamati dalle squadre francesi o inglesi, è un aspetto che fa un po’ paura ma anche di cui andare orgogliosi. Certo, sono talenti che vanno all’estero e che non si fermano in Italia, ma è giusto che si confrontino anche a livello internazionale. Il fatto che a 16,17,18 anni abbiamo già un bagaglio tecnico di questo livello è un motivo di vanto, quello su cui si può lavorare è il ‘salto’ dalle giovanili al professionismo, per poter permettere ai ragazzi più promettenti di poter maturare e esprimersi anche nelle nostre squadre e non all’estero". Domanda provocatoria. Hai detto che è un motivo di orgoglio vedere tanti ragazzi tentare di fare carriera all’estero. Come mai tu invece hai deciso di rimanere in Italia e di provare a costruire con la Benetton Treviso? "Perché sono orgoglioso di essere italiano e di far parte di un progetto che sta maturando. Sono convinto che con Treviso si possa puntare a un titolo nei prossimi anni, una soddisfazione che non potrei mai avere in nessuna squadra straniera. Inseguire un sogno, da capitano dell’Italia, con un club italiano è un grande motivo di vanto e una grande fonte di motivazione. Tra l’altro essere rimasto a Treviso mi aiuta nel mio ruolo di capitano, mi permette di avere una maggiore centralità sia nel club sia nella nazionale, di aiutare più da vicino il movimento del rugby a crescere. Sono convintissimo che sia stata la scelta migliore per la mia carriera". È una risposta da grande leader quella che hai dato. Pur essendo ancora molto giovane sei già un veterano. E hai fatto il capitano praticamente ovunque in carriera. C’è un modello di leadership a cui ti ispiri? Qual è la caratteristica che pensi ti appartenga di più come capitano? "Domanda molto complicata. La risposta è “dinamica”. Mi rendo conto di come il mio ruolo, la mia competenza e la mia consapevolezza cambino di mese in mese, sulla base delle esperienze che faccio e di ciò che riesco a dare e ricevere dagli altri giocatori. Essere capitano non significa essere arrivato alla migliore versione di te stesso. Mettere le necessità della squadra prima di tutto è fondamentale, capire la strada migliore per arrivare all’obiettivo del gruppo, anche a costo di abbandonare una mia convinzione. Nello sport molte situazioni non andranno come previsto, serve dare quei piccoli aggiustamenti di volta in volta per avere un risultato migliore. Se dovessi scegliere un “modello di riferimento” prenderei Richie McCaw, per il suo percorso verso il successo. Ma nel rugby di personalità carismatiche ce ne sono state tante". Lato campo invece, chi è stato il tuo idolo? "Quando ero bambino giocavo più tre quarti. Il mio modello è stato soprattutto Jonny Wilkinson. Un giocatore incredibile. Ricordo ancora una sua partita vista dal vivo quando giocava a Tolone. In campo faceva la differenza. Non sono per le sue qualità tecniche ma anche per come “teneva” il campo, per la personalità che emanava all’interno del campo. Mi è rimasto impresso". Come nasce il tuo amore per il rugby? Non è il primo sport che viene in mente quando si è bambini. "Entrambi i miei genitori sono da sempre dei supersportivi, lo sport in casa nostra è stato un mezzo anche per educare. Io e i miei due fratelli siamo cresciuti provandone di diversi tipo. Siamo arrivati tutti e tre al rugby grazie a degli amici di famiglia, i cui figli giocavano. Da lì non ci siamo più staccati. Crescendo i miei fratelli hanno smesso mentre io ho continuato. È una bella storia d’amore, dal primo allenamento a 6 anni fino a oggi che ne ho 26 non c’è stato un giorno che non desiderassi fare altro". Il rapporto con gli altri sport invece? Tuo papà è stato un velista alle Olimpiadi, sei tifoso della Roma ma da quello che so segui anche la Formula 1. "Sono un grande amante dello sport in generale. Di quello che rappresenta. Lo sforzo, la dedizione, quasi l’ossessione del percorso che una persona compie per arrivare a diventare professionista. Amo le storie, da atleta sono una grande fonte di motivazione. Nella vita di tutti i giorni seguo tanto la Formula 1, il ciclismo e il tennis. Un po’ meno il calcio, ma un tratto della nostra cultura, è quasi impossibile trascurarlo. E la vela, ovviamente. Papà ha fatto l’America’s Cup, ancora oggi si diverte con le regate. In casa non è mai mancata". Parlando di ossessione, sei uno di quegli atleti che segue il proprio sport anche quando non gioca? O preferisci staccare dal rugby quando sei a casa? "Mi piace seguirlo anche da spettatore. Trovo che il rugby sia bello da guardare, soprattutto ai massimi livelli. Faccio fatica a rinunciare alle grandi partite di livello internazionale. Ma anche quelle di club non sono da meno. Non me le perderei per niente al mondo". In campo è più facile conoscerti, ma se dovessi raccontare che persona sei al di fuori del rugby come ti definiresti? "Un ragazzo abbastanza attivo. Faccio fatica a rimanere fermo. Mi definirei una persona dinamica che ama la natura e cerca di passare più tempo possibile all’esterno, magari in montagna. Con la neve. Durante la stagione fatico a trovare del tempo ma se posso ritagliarmi un attimo sto all’aria aperta a rilassarmi. Sono un ragazzo semplice, devo essere sincero. Trovo che il rugby mi dia già sufficienti stimoli. Quando non sono in campo preferisco le cose poco complicate, che mi facciano sentire 'piccolo'. È un aspetto a cui tengo molto nella mia vita di tutti i giorni". Se dovessi scegliere un altro hobby? Non vale dire le camminate in montagna. "Giù in garage ho una piccola falegnameria . Ci lavoro un paio di volte alla settimana da 3, 4 anni. È un passatempo a cui tengo molto. Passo del tempo con me stesso, stacco la testa, elimino i pensieri. Per non parlare della soddisfazione di quando riesco a terminare un lavoro. Ci vuole molto tempo, mi piace anche per quello". Ci avviamo verso la fine. Abbiamo parlato del tuo 2024 e dell’augurio per il 2025. Da qui al futuro cosa speri di lasciare alle prossime generazioni che si avvicineranno al rugby? "Spero di poter vincere un titolo, con Treviso e anche con l’Italia. Sarebbe il mio sogno. Ci punto onestamente. Questo come giocatore. Come uomo mi piacerebbe lasciare il movimento del rugby in Italia in uno stato migliore di com’era quando ho iniziato io. Mi interessa dare tanto ai ragazzi e agli stessi giocatori: collaboro con l’associazione giocatori e stiamo spingendo negli ultimi per dare sempre più supporto agli atleti e per aumentare la consapevolezza riguardo una carriera che tutto sommato dura pochi anni. Lavoriamo per fare in modo che i rugbisti abbiano una visione a lungo termine della propria vita anche dopo il ritiro. Spero di poter essere una fonte di ispirazione per chi verrà, non solo in campo ma anche fuori". Un consiglio, uno solo, per chi vuole avere Michele Lamaro come modello di riferimento? "Me ne chiedi uno ma ne avrei in mente 50. Alla fine dei conti direi che è necessario essere orgogliosi di sé stessi. Guardarsi allo specchio e sapere di avere tentato tutto quello che era in nostro potere. Siate fieri di voi stessi, perché le risposte davvero importanti arrivano da dentro, non dall’esterno. E saranno poi quelle che porteremo con noi per tutta la vita".

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