Il tour estivo dell'Italrugby, parte I: il dietro le quinte del match contro la Namibia

Parte 1: La preparazione all’Aquila e il test-match contro la Namibia “Io non perdo mai. O vinco o imparo” Non abbiamo vinto. Ma sarebbe stato complicato farlo per qualsiasi altra nazionale di rugby al mondo. Persino per le più forti. Andare a vincere in casa dei due volte campioni del mondo in carica. Per noi quasi impossibile. Utopistico se aggiungiamo il fatto che in Sudafrica ci siamo andati a fine stagione, senza tanti giocatori d’esperienza tenuti a riposo, e con una rosa giovanissima e inesperta. Non abbiamo vinto. Ma, se tornando a casa abbiamo capito di aver imparato qualcosa, è come se lo avessimo fatto. L’Aquila, Week 1 – Un nuovo capitano Come un anno fa, il via al tour estivo della Nazionale italiana di rugby viene dato a L'Aquila. Terra di rugby. A 700 metri sul livello del mare. E un protocollo firmato che ci impegna a visitare l’Abruzzo quando possibile e necessario. Gonzalo Quesada raduna lì le sue truppe. Si lavora al ‘Tommaso Fattori’. E benedetti gli scrosci di pioggia che abbassano le temperature altrimenti insostenibili. Una rosa priva di moltissimi elementi chiave. Non ci sono gli ultimi 3 capitani: Michele Lamaro, Nacho Brex, Federico Ruzza. Manca il numero 10 titolare, Paolo Garbisi, e la sua prima alternativa , Tommaso Allan. Niente tour nemmeno per Gianmarco Lucchesi e Ange Capuozzo. Che, d’accordo sono infortunati, ma non sarebbero stati convocati lo stesso. Riposo. Per chi tira la carretta ininterrottamente dal 1° luglio 2023. Non ci dovrebbe essere nemmeno Simone Ferrari. Ma un infortunio a Giosué Zilocchi lo porta direttamente in Namibia. Mancano tutti questi giocatori. Tutti questi leader. La scelta sorprende. Ricade su Giacomo ‘Il Mulo’ Nicotera. Triestino. Che il capitano l’ha fatto, forse per sbaglio, una sola volta in carriera. Nel Mogliano Under 18, 10 anni fa. Sua prima richiesta: “Non fatemi fare troppe interviste o conferenze stampa. Il Mulo rimarrà il Mulo”. Ovvero poche parole e tanti fatti. Tranquillo Jack. Sei stato scelto proprio per quello. Per l’esempio. Per la fiducia che ispiri ai tuoi compagni. Quesada l’ha proposto. Il plebiscito è stato assoluto. Ma anche senza quel sostegno bulgaro la scelta sarebbe stata quella. Gli altri tre saranno i suoi luogotenenti. Il ruolo di capitano tocca a lui. E ora si parte. Direzione Windhoek. Si va in Namibia. Windhoek , Week 2 – Samoa 2.0? Windhoek. Capitale della Namibia. 1750 metri sul livello del mare. Letteralmente ‘angolo di vento’. Che il nome sia azzeccato lo capisci immediatamente all’arrivo all’aeroporto. Che dista 50 km dal centro città. 50 km di sterpaglie. Di silenzi quasi assordanti. E di un cielo senza nuvole. La squadra è già lì da 3 giorni. E con 3 giorni di ritardo seguo il loro percorso. Brividi di freddo. Febbre. Problemi intestinali. In rosa c’è chi ha visto più il bagno che il campo di allenamento. Sarà l’altura. Sarà il clima che passa in un amen dai 20 ai 2 gradi. Saranno i batteri nell’aria di un microclima diverso. ‘Tato’, in realtà si chiama Roberto Alessandrini, è il dottore della Nazionale ma se lo chiami diversamente non si gira nemmeno. “Tato, dammi qualcosa”. “Tachipirina, una al giorno. Questo ad ogni scarica. Prendine 6. Non si sa mai”. Per la cronaca le pastiglie andranno esaurite. Non solo le mie. Ma quelle dell’intera comitiva. “E per il naso secco, da cui perdo sangue, e per le labbra screpolate?” “Usa la body lotion” “Body Lotion? Quella che abbiamo in camera? Ma è la crema per il corpo” “È una crema grassa e fa miracoli. Fidati” Mi sono fidato. E se lui fa il medico e io no un motivo c’è. Ofelé, fa el to mesté. Grazie Tato. Il viaggio non è andato male. 12 ore in tutto. Milano-Addis Abeba, Etiopia, il nuovo hub di tutto il continente africano. 6 ore. 1 ora di coincidenza. Addis Abeba-Windhoek. Altre 5 ore. Dall’Italia non ci sono voli diretti per Namibia o Sudafrica. Come dicevo, il viaggio non è andato male. A qualcun altro è andata decisamente peggio. Le prime due ore dell’ultima tratta hanno visto il sonno prendere il sopravvento sulla scomodità. Ma le ultime 3 hanno visto la seconda portarsi in vantaggio e vincere per distacco. Di fianco a me c’è un ragazzo vestito con maglia e pantaloncini dei Griquas, una squadra sudafricana che gioca nella Currie Cup. Un rugbista ne riconosce subito un altro. Entrambi ci alziamo per avvicinarsi alla zona WC. Ognuno fa il suo. Pulizia dei denti compresa. Poi attacchiamo bottone. “Giochi nei Griquas?” “Ci giocavo. Adesso sto tornando a casa perché venerdì ho una partita internazionale” “Venerdì? Ma oggi è mercoledì. Non vorrai mica dirmi che giochi con la Namibia” “Sì. Ho preso un volo da Krasnojarsk. Gioco lì…”. Pausa. Dovuta. Krasnojarsk si trova in Siberia. Vicino al Lago Bajkal. È storicamente la zona di riferimento del rugby russo. Noi, nel 2006, per le qualificazioni mondiali in vista di RWC 2007, abbiamo implorato e ottenuto di sfidare i russi a Mosca. Senza dover andare in mezzo al nulla. Il Connacht, squadra irlandese che gioca nello URC e nelle coppe europee, senza lo stesso peso politico, anni dopo non ce l’ha fatta. E lo Enisei, l’altra squadra della città, l’ha dovuto affrontare dopo un viaggio infinito e a temperature… siberiane. Si è fatto Krasnojarsk-Mosca. 9 ore o giù di lì. Mosca-Addis Abeba. Addis Abeba-Windhoek. “Quindi giocherai contro di noi italiani” “Sì. Guarda, all’aeroporto mi viene a prendere mia moglie che non vedo da un po’. Andiamo a casa. Saluto il bimbo. Vado al campo a incontrare i miei compagni. Torno a casa. Cena veloce. Poi a nanna e giovedì captain’s run. Poi si gioca. E devo conoscere ancora parte della squadra”. Lui è Johan Retief. Seconda linea della Namibia. Squadra con giocatori che militano nel campionato locale e nella Currie Cup sudafricana. Ma anche nelle varie divisioni francesi. O negli States. O in Romania . O, come visto, in Russia. Lo racconto a Gonzalo Quesada quando arrivo in albergo. Che sorride. E si raccomanda di non dirlo ai giocatori. Il rischio sarebbe quello di sottovalutare l’impegno una volta saputo contro chi avremmo giocato. Il primo test del tour è, quindi, contro la Namibia. I Welwitschias hanno disperatamente chiesto questa partita per preparare al meglio le qualificazioni alla Coppa del mondo del 2027 in Australia. Un test vero. L’ultimo prima di andare in Uganda . Per noi, invece, si tratta di togliere ruggine dagli ingranaggi. La squadra non gioca più assieme da tre mesi. Dal ko interno con l’Irlanda nel 6 Nazioni. Ma, più in generale, i ragazzi non scendono in campo per una partita da un mese. Da quando la stagione di Benetton e Zebre è terminata. Per poi andare in Sudafrica con qualche certezza in più. Noi siamo al 10° posto nel Ranking mondiale. Loro al 25°. Si gioca di venerdì pomeriggio. Lo stadio, l’Hage Geingob Stadium, non ha l’illuminazione sufficiente per permettere la disputa degli incontri dopo le 18. Niente TMO . La tecnologia non lo permette. Stadio piccolo e che sfida ogni norma di sicurezza e buon senso. A modo suo è affascinante tanto quanto Twickenham. Sono le stesse condizioni vissute un anno prima in mezzo al Pacifico. A Samoa. Quando avevamo perso. No. Stavolta non può e non deve andare così. Una differenza c’è. Sensibile. L’altura. 1750 metri. Di questa sfida si è fatto carico Alessandro Gerini, preparatore atletico. Nello speciale relativo a questa trasferta, che è in programmazione sui canali di Sky Sport, troverete tutte le sue parole con le dovute specifiche terminologiche. Io provo a farla breve. Quando si arriva in altura e non si è abituati, servono 3 giorni per assorbirla. 3 giorni dove ogni sforzo atletico fa mancare il fiato molto prima del solito. Dal 3° al 7° giorno c’è un adattamento continuo. Dal 7° giorno in poi la si è assorbita. E siccome il secondo test del tour, il primo dei 2 in Sudafrica, sarà ai 1350 metri di Pretoria, la nostra preparazione è giocoforza tarata su quell’obiettivo. Senza, però, perdere di vista questo. Vinciamo 73-6. Giacomo Da Re man of the match. Hasa, Canali e Belloni debuttano. Nicotera fa il capitano e salta la conferenza stampa post-partita . Purtroppo, però, Marco Riccioni e Leonardo Marin si fanno male. Inutile tenerli lì. Non recupererebbero comunque. Tornano a casa. Dall’Italia vengono chiamati Pietro Ceccarelli e Damiano Mazza . Il post-partita è di quelli che ti fanno tornare alle tue radici. Finalmente un terzo tempo. Di quelli veri. Onesti. Sinceri. La federazione namibiana quasi ci implora. Perché noi staremmo anche per tornare in albergo, fare i bagagli e partire presto il giorno dopo. “Rimanete. Un’oretta soltanto”. Davanti alla Club House . All’aperto. In piedi. Discorsi. Complimenti. Scambio di maglie e cravatte . Un barbecue. E birra. D’altronde è lo sponsor locale. E una delle più buone d’Africa, ma questo è un altro discorso. Gli arrosticini locali vengono spazzati via. Non solo da noi. I giocatori fraternizzano. Si scambiano pareri. Si ride. Che bello. Certe cose ormai ad alti livelli non le vedi più. Tutto accantonato in nome dello sport moderno e iper-professionista. Per un’ora tutti torniamo al rugby di base. Quello che ci ha fatto innamorare di questo sport che, citando un vecchio allenatore italiano, “chiede tanto e ti da poco. Ma in quel poco è racchiuso il tutto”. La pancia sembra aver smesso di far dannare. Il naso non cola più. Le labbra sono meno secche. La body lotion la portiamo con noi perché non si sa mai. Da Windhoek andiamo a Johannesburg. Rainbow Nation, we’re coming!

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Moreno Molla