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La questione razziale in USA: tra l'NBA e Trump è guerra aperta

Sport USA

Lia Capizzi

I disordini e le violenze di Charlottesville, in Virginia, hanno riportato in primissimo piano il razzismo in America. LeBron James accusa Trump, Nash scrive un tweet da KO contro il Presidente

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A Charlottesville, città della Virginia, le immagini vergognose degli scontri e dei disordini degli ultimi giorni hanno fatto il giro del mondo. Da una parte la marcia dei suprematisti bianchi di estrema destra con i loro simboli, bandiere confederate, scudi, le tre K del Ku Klux Klan, dall'altra parte il corteo antirazzista contro cui si è lanciata un'auto provocando la morte di una manifestante. La bufera politica ha coinvolto il presidente Trump, barcamenandosi dice "che la colpa è di tutti", non condanna l'estrema destra, non può farlo visto che anche grazie ai voti di quest'ultima è salito alla Casa Bianca.

Il mondo dello sport non è mai stato zitto sulla questione razziale ma questa volta decide di alzare la voce e i toni sono molto pesanti. Le urla sono quelle dello sportivo piu carismatico del mondo, LeBron James. Da tempo è il paladino di tutti gli afroamericani d'America, già a fine maggio aveva rincarato la dose quando la sua villa di Los Angeles era stata imbrattata da scritte razziste, aveva tuonato: "Non importa quanti soldi hai, quanto la gente ti possa ammirare, quanto sei famoso, essere nero in America è difficile". LeBron non ha mai amato Trump, in campagna elettorale è salito sul palco in Ohio per sostenere la Clinton, lo scorso dicembre in trasferta con i suoi Cavaliers a New York si è rifiutato di dormire nell'hotel di proprietà di Trump a Soho. Adesso però la situazione diventa incandescente.

Sul palco per un evento della sua Fondazione a Sandusky non pronuncia il nome di Trump limitandosi a un laconico "quello che chiamano il Presidente", e cerca di indicare a tutti la via: "Sono un personaggio pubblico, e allora vi voglio dire che l'unica via per progredire e migliorare come società e come persone è l'amore: questo è l'unica cosa che ci permetterà di conquistare qualcosa tutti insieme". Su Twitter James invece non ha peli sulla lingua, lo cita eccome, lo accusa con una serie di post. L’ultimo è l'atto d'accusa più grave: "L'odio è sempre esistito in America. Lo sappiamo. Ma Donald Trump lo ha reso di nuovo di moda. Le statue non c'entrano nulla con noi adesso" (ndr la rimozione di una statua del generale Robert Lee, un eroe per quella parte di America sudista e schiavista, ha dato il via alla marcia di protesta e ai successivi disordini a Charlottesville).

 

Se LeBron contro il presidente americano la tocca piano, Steve Nash addirittura sferra un gancio da KO contro Trump, il suo tweet è pesante assai nel linguaggio ("To defend white supremacists and then slang his shitty ass grape juice pretty much sums the man up" ) con cui spiattella il conflitto di interessi di Trump che a Charlottesville è proprietario di una grande cantina di vini. Aggiungiamoci le dure critiche degli ultimi mesi dei coach Steve Kerr ("Trump? Che disgusto!") e Gregg Popovich ("Non puoi fidarti di quello che dice Trump: predica una cosa e poi ne fa un'altra") e possiamo davvero parlare di una guerra aperta dell'Nba contro Trump.

Nel football americano la situazione è diversa, quasi tutti i proprietari delle franchigie sono bianchi e nell'ultimo anno è pure scoppiato il caso di Colin Kaepernick. Il quarterback dei 49ers per tutta la stagione si è rifiutato di alzarsi in piedi durante l'esecuzione dell'Inno nazionale prima di ogni gara, è rimasto sempre seduto o in ginocchio: "Non voglio omaggiare la bandiera di un paese che opprime i neri". Trump ancor prima di insediarsi alla Casa Bianca lo aveva bacchettato: "Se non ti sta bene, caro Colin, lascia il Paese". Risultato? Il gesto di Kaepernick ha fatto scuola, imitato da tanti colleghi, ma lui non ha più una squadra, al momento è disoccupato, nessuna franchigia lo vuole ingaggiare, troppo costoso e dal rendimento in calo la motivazione ufficiale - e di comodo- dietro cui però si cela lo spauracchio di avere a che fare con un giocatore scomodo. Ah, a proposito di Twitter, il post scritto dall'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama subito dopo gli incidenti di Charlottesville, con tanto di citazione di Mandela, è diventato il più gradito di sempre, ha battuto il record per il tweet con più like nella storia del social.