Quando Trump fece causa alla Nfl (e perse): storie di intrecci tra football e politica USA

Donald Trump, il primo presidente in carica ad assistere dal vivo al Super Bowl. Ma per quanto si sforzi - e per quanto iconoclasta sia la sua presenze - non potrà mai uguagliare un suo predecessore, Richard Nixon, che nel Super Bowl avrebbe voluto giocare e allenare. Ricordato dalla storia con un po’ di imbarazzo, per lo scandalo spionistico Watergate che lo portò alle dimissioni da Presidente, Nixon però sul piano sportivo era un fenomeno di entusiasmo, specialmente sul football americano, sua passione sconfinata. Un bel libro, che racconta una storica partita universitaria tra Texas e Arkansas, ha addirittuta il titolo ‘Horns, Hogs and Nixon coming’, unendo quindi il cognome del presidente, e la sua visita alla partita, a quello dei soprannomi delle due squadre. Qui però, prima di raccontare il resto, va citato un episodio verificatosi dopo la gara, negli spogliatoi in cui Nixon era andato a congratularsi con Texas girando tra un giocatore e l’altro e l’allenatore Darrell Royal con l’aria più felice che potesse esserci. Non perché avesse vinto una squadra a lui gradita ma proprio per il fatto di essere a contatto con un grande team: solo che Texas aveva in squadra due gemelli, che diedero la mano al presidente più di una volta ma separatamente l’uno dall’altro e indossando la stessa maglietta, per cui successivamente uno di loro disse "Nixon si sarà chiesto come mai questo ragazzone gli avesse voluto stringere la mano 5-6 volte nel giro di pochi minuti..." Il presidente era stato giocatore mediocre, prima al liceo e poi all’università di Whittier, dove lo avevano tenuto in squadra solo per l’entusiasmo irrefrenabile, più un tifoso in divisa che un giocatore, e in tutto il percorso politico aveva sempre cercato di tenersi libero il sabato o la domenica, per il college football e il football professionistico. Diventato presidente, trovò alla guida dei Washington Redskins un allenatore, George Allen, che proprio a Whittier aveva cominciato a formarsi come tecnico pochi anni dopo il quadriennio agonistico nixoniano: non gli parve vero di poter attivare quello che gli americani chiamano old boys’ network, la rete professionale o amicale che nasce da antiche frequentazioni, e con Allen parlò spessissimo, arrivando anche a suggerirgli uno schema di gioco che un giorno venne provato in partita, a dire il vero con risultati modesti. Dopo le dimissioni di Nixon, 1 agosto 1974, la presidenza passò al suo vice, Gerald Ford, e qui parliamo di un gigante: Ford, di cui esistono foto in posa e in azione, era stato centro e linebacker della University of Michigan, con cui aveva vinto due titoli nazionali nel 1932 e 1933. Dopo il college aveva avuto offerte dalla NFL, declinandole per andare a fare l’assistente allenatore a Yale University, con un occhio alla laurea magistrale in legge poi presa nel 1941, ma da vice e poi presidente, nonostante il periodo turbolento, frequentò più partite e allenamenti possibili, e spesso chiese alla banda presidenziale di aprire ricevimenti o eventi speciali eseguendo non il tradizionale ‘Hail to the Chief’ ma ‘Victors’, l’inno di Michigan. Dopo il periodo di Jimmy Carter, che aveva avuto solo un breve passato di giocatore al college, il football tornò a popolare l’immaginario e il concreto della Casa Bianca grazie a Ronald Reagan, su due piani: un paio di anni da giocatore, nel piccolo Eureka College, poi nel 1940, già partita la sua carriera da attore, l’indimenticabile interpretazione di George Gipp, un giocatore stroncato da una grave infezione alle vie respiratorie, nel film ‘Knute Rockne, All-American’, che racconta la vera storia di Rockne, un figlio di immigrati norvegesi diventato allenatore della celebre università Notre Dame. In più, subito dopo il college Reagan aveva fatto la radiocronaca di quattro partite universitarie prima di passare al commento del baseball, per il quale si era inventato un metodo straordinario che rimediava al fatto che la partita, di fatto, lui non la potesse vedere, dato che era in uno stanzino e non allo stadio: seduto accanto alla telescrivente, un macchinario che ogni pochi secondi riceveva e stampava la descrizione di ogni azione di gioco, con la sua voce raccontava il contenuto di quei messaggi come se stesse assistendo alla partita, aiutato da un tecnico del suono. Del suono, in senso letterale: perché quando bisognava annunciare una battuta valida il tecnico faceva il rumore di una mazza di legno, e c’era pure una rudimentale registrazione di esultanza del pubblico da usare come sottofondo nei momenti cruciali. Storie presidenziali straordinarie su molti fronti, che peraltro devono tutto ad un altro presidente, Theodore Roosevelt, in carica dal 1901 al 1909. In quegli anni il football si giocava praticamente solo a livello universitario, ed era uno sport delle origini, violento più che duro. Al presidente, amante dell’attività fisica e della fortificazione del corpo e dello spirito che ne derivava, il football piaceva, ma ad un certo punto la situazione era parsa andare fuori controllo e il 9 ottobre 1905 erano stati invitati alla Casa Bianca alcuni importanti allenatori e amministratori del college, assieme al Segretario di Stato Elihu Root, e nella riunione Roosevelt aveva chiesto loro di trovare la maniera di smorzare gli eccessi di violenza e antisportività. Il primo tentativo non era andato molto bene: in quella stagione 1905, giocata tra settembre e novembre, ci furono risse, colpi proibiti, violazioni del regolamento e addirittura 18 morti in campo e centinaia di feriti, tra cui Ted Roosevelt, figlio del presidente, costretto ad operarsi per la riduzione di una grave frattura nasale. Alcuni college avevano chiuso il reparto football, altre l’avevano sostituito con il rugby, e fu solo a fine anno, con la nascita della NCAA, organismo deputato alla regolamentazione degli sport universitari, che la situazione migliorò. Senza l’intervento di Roosevelt, insomma, il football probabilmente sarebbe sparito, e non ci sarebbe nessun Super Bowl. Ora, nel caso di Trump, i trascorsi non parlano di una passione particolare per questo sport in nessun periodo della sua vita adolescenziale e giovanile, anche perché le vicende di famiglia e le attività avviate dal padre pretendevano un’applicazione immediata, che peraltro l’ampliamento dell’impero immobiliare ha poi giustificato. Una quarantina di anni fa, però, il 37enne Trump ebbe in realtà un coinvolgimento pesantissimo nel football americano professionistico. Solo che non era la NFL ma la USFL. Ovvero, un campionato rivale, o quasi. La United States Football League era nata nel 1982 per iniziativa di David Dixon, un antiquario di New Orleans che aveva commissionato un sondaggio in base al quale l’americano medio - perlomeno tra quelli interpellati - aveva ritenuto troppo corta la stagione della NFL, settembre-gennaio, rispetto a quelle di baseball , basket e hockey . E allora aveva ideato una lega che giocasse in primavera, migliorando il fallito tentativo del 1973 della World Football League, che aveva sconsideratamente voluto giocare tra luglio e dicembre ed era stata quasi ignorata. Alla WFL però dobbiamo una lunga serie di aneddoti al limite dell’assurdo, come la vicenda di Rommie Laudd, primo afroamericano proprietario di un team professionistico, i Florida Blazers, ma successivamente arrestato e condannato a 14 anni di reclusione per spaccio di cocaina. Dixon ci aveva in realtà già provato nel 1966, ma la fusione tra NFL ed AFL che aveva dato il via alla tradizione del Super Bowl gli aveva suggerito di non andare oltre: nel frattempo, però, era stato fondamentale per portare una squadra NFL a New Orleans e creare la spinta per la costruzione del Super Bowl. Per l’edizione anni Ottanta, la USFL partì con principi solidi: gestione oculata delle spese, buon contratto televisivo, allenatori e general manager di esperienza, proprietà magari variegate ma affidabili. Anche qui una tonnellata di aneddoti e di situazioni bizzarre, date dalla fretta di reclutare giocatori, ma Trump? Bene, una USFL non poteva non avere una squadra a New York, e squadra fu: i New Jersey Generals, che dovettero così chiamarsi, su imposizione dello Stato del New Jersey in cui sorgeva il loro stadio, il Giants Stadium , e il futuro presidente era stato contattato e si era mostrato interessato. Male non fa, se hai un impero immobiliare a New York e dintorni, avere anche un po’ di visibilità. Dopo aver versato la prima rata di tassa di ingresso nella lega, però, Trump non si era presentato alla riunione di chiusura e, in una telefonata in viva voce ascoltata con disappunto dal resto dei proprietari, si era giustificato dicendo che proprio quella mattina si era prospettata una clamorosa opportunità immobiliare che richiedeva il massimo sforzo, mentale più che materiale, dato che non erano certo i mezzi che gli mancavano . Disperati, i boss avevano chiamato in soccorso Walter Duncan, un petroliere dell’Oklahoma desideroso di avere una squadra ma abbastanza perplesso sull’opzione New York, città con cui non aveva alcun legame. Duncan però era partito alla grandissima: con una mossa a sorpresa, ai limiti della legalità dato che il ragazzo doveva ancora finire il college, aveva messo sotto contratto Herschel Walker, il fortissimo running back fresco premiato come miglior giocatore universitario. La prima annata, 1983, era andata maluccio sul campo e in più Duncan si era stufato: vero che viaggiava con un aereo privato, ma aveva ritenuto sempre più assurdo il doversi fare tre ore di andata e tre di ritorno per andare a vedere le partite ‘in casa’, e in soccorso della USFL tornò proprio Trump che, alla sua maniera, fece piazza pulita di quasi tutta la struttura gestionale, assunse personalmente l’onere del contratto di Walker - articolato come collaborazione non solo sportiva - senza che gravasse sui conti del team e migliorò il livello qualitativo del roster con la speranza di vincere il campionato. Contattò addirittura il celeberrimo Don Shula, coach dei Miami Dolphins, ma le trattative saltarono non tanto quando Shula, oltre ad un ricco contratto, chiese la disponibilità gratuita di una suite nella lussuosa Trump Tower, quanto per la rivelazione di questa richiesta che Trump fece ai media, indispettendo Shula . Non andò così, NY/NJ venne eliminata nei playoff ma migliorò clamorosamente rispetto alla deludente annata di debutto. Nel 1985 ci fu l’arrivo del quotato quarterback, Doug Flutie, fresco vincitore dell’Heisman Trophy come miglior giocatore universitario, ma ancora la stessa avversaria, gli Stars, ora però spostata a Baltimore dopo gli inizi a Philadelphia, fu ostacolo insormontabile nei playoff, a cui Walker arrivò con un record professionistico di yard guadagnate palla in mano, 2411. La stagione 1986 fu… anzi no, non fu. Non si giocò mai, e qui ancora Trump fu protagonista. La sua ambizione, così come quella di Eddie Einhorn, nuovo proprietario dei Chicago Blitz, era quella di portare la USFL a competere direttamente con la NFL e costringerla ad una fusione parziale, che avrebbe moltiplicato il valore dell’investimento dei proprietari della nuova lega. L’unica maniera era però quella di sfidare la NFL anche sul piano temporale, e del resto già nel 1984, al suo ingresso, Trump aveva dichiarato di voler spostare la stagione all’autunno. Chet Simmons, il commissioner, non era d’accordo: "come ho detto già tante volte, saremmo dei pazzi se pensassimo di andare allo scontro con un colosso come la NFL". Simmons però dovette cedere, e il passaggio successivo alla votazione a favore fu però drammatico: alcuni team, anche tra quelli che avevano approvato la modifica, si sciolsero piuttosto di sfidare la dirimpettaia NFL della loro medesima città, altri si spostarono, Houston venne… acquistata da Trump e fusa con New Jersey, con un enorme potenziale tecnico che però non si tradusse mai sul campo, perché sul campo non ci andò mai. Visto infatti che l’interesse delle televisioni per diritti di una lega autunnale in concorrenza con la NFL era stato tiepido, la USFL fece causa alla NFL su basi antitrust, quelle cioé di condizione di monopolio creato con metodi illegali, asserendo cioé che la lega avesse fatto pressioni al limite del ricatto sulle reti televisive perché giocassero al ribasso e, nelle città in cui gli stadi erano di proprietà pubblica, perché venissero posti veti o ostacolo all’affitto alla USFL. Venne anche fuori la pubblicazione di un professore di legge di Harvard, Michael Porter, dal titolo ‘Come distruggere la USFL’, che fu ritenuta uno studio commissionato proprio dalla NFL per delineare un piano di annientamento. Ad un certo punto, i legali della NFL stessa consigliarono di patteggiare, vista la quantità di prove a sfavore, ma lì emerse la tenacia di un giovane consulente legale, Paul Tagliabue, che propose argomentazioni solide e spronò i legali incaricati del caso a dimostrare che il ‘Piano Porter’ era farina del sacco del professore e non era né stato commissionato né seguito. Il dibattito in aula durò 42 insopportabili giorni, e si concluse in modo grottesco il 29 luglio 1986: la giuria, composta da sei persone, diede ragione alla USFL su base generale, riconoscendo che la NFL operava in uno status di monopolio illegale, ma riconobbe anche che la USFL si era messa in difficoltà da sola decidendo di spostarsi all’autunno e provocando così la sparizione di alcuni team, e soprattutto che le reti televisive non erano state ricattate dalla NFL, anzi avevano fatto offerte ritenute congrue, per i diritti autunnali. In parole povere: NFL cattiva ma non al punto da aver danneggiato in maniera irreparabile la USFL, che i guai se li era in parte procurata da sola. Il risarcimento che la lega tradizionale doveva pagare a quella nuova fu stabilito in… un dollaro, moltiplicato poi per… tre per rispetto di una norma antitrust e divenuto poi 3,76 con gli interessi, assegno che nessuno della USFL si abbassò poi mai ad incassare. Fu dunque la fine: niente stagione 1986, ovviamente, e neanche stagione 1987, quella su cui - annusando correttamente l’aria - Trump e soci avevano puntato, dato che dissidi tra proprietari e giocatori NFL portarono al famoso sciopero che sarebbe stato una formidabile arma di reclutamento per la USFL stessa. L’eredità della USFL vive in ricordi, cambiamenti di regole adottati poi dalla stessa NFL, ma quella fu l’uscita di scena per Trump, principale assertore della sfida, che con il football da quel momento non ha più avuto a che fare, se non con le polemiche, da candidato alla presidenza poi presidente di primo mandato, per le proteste di alcuni giocatori contro le violenze della polizia. Ah, che fine fece poi quel Paul Tagliabue che con i suoi consigli diede ai legali della NFL la spinta per non arrendersi e convincere così la giuria che il comportamento della lega non era poi stato così criminale? Beh, nel 1989 venne eletto dai proprietari Commissioner della NFL, successore di quel Rozelle che la NFL l’aveva portata ai massimi traguardi ma che quel giorno di luglio 1986, al sentir riconoscere la vittoria della USFL, aveva spaventato uno dei suoi collaboratori più stretti, che vedendolo sbiancare aveva temuto un attacco di cuore.

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