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I gesti bianchi del vero Re

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Paolo Condò

A quasi 36 anni, Roger Federer vive la sua seconda esistenza tennistica con la rapidità necessaria a chi corre contro il tempo. Il Centrale di Wimbledon è il suo club, e l’altro finalista è un invitato: ringrazi per il privilegio, non pagherà nemmeno il campo. È un altro il conto che dovrà saldare...

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Nel lungo corridoio che conduce al campo centrale di Wimbledon, Marin Cilic evita accuratamente di incrociare lo sguardo di Roger Federer. Teme di restarne pietrificato, come accadeva a chi guardava negli occhi la Medusa; nella mitologia Perseo riuscì a decapitarla mirandola attraverso uno specchio, e non c’è dubbio sul fatto che Cilic abbia passato la notte di vigilia a macerarsi nella ricerca di un espediente altrettanto geniale per abbattere il fenomeno svizzero. Federer non ha serpenti al posto dei capelli, ma artigli pronti a ghermire la preda appena questa - condizionata dalla paura, o anche solo dal rispetto - impercettibilmente rallenta la sua corsa. È per questo che Cilic non lo guarda. Se entra nel solito ingranaggio dei sorrisi e della stretta di mano, quello che certifica come Roger non patisca alcuna emozione, non ha scampo. Lontano, lontano. Tenersi lontano, o è finita prima ancora di essere iniziata.

Con motivazioni speculari, Federer cerca invece il contatto. A quasi 36 anni (li compie fra tre settimane) e dopo una pausa così lunga da avere riempito tutti - lui per primo - di cattivi pensieri, Roger vive la sua seconda esistenza tennistica con la rapidità necessaria a chi corre contro il tempo. “Live fast, die young”, vecchio mantra delle generazioni ribelli da James Dean in poi, è la sigla di questo secondo Federer. Non durerà in eterno, lo sa lui e lo sappiamo noi, e dunque gioca per chiudere in fretta e non sprecare energie. E visto che ogni avversario soffre il suo inevitabile carisma - come partire un set sotto, o 0-30 ogni game - gli basta un’occhiata per graffiarlo. Per ferirlo, e far uscire le prime gocce di sangue. Per convincerlo che in campo ci sono un sovrano e un suddito, e non sono previsti colpi di Stato. Il Centrale di Wimbledon è il suo club, e l’altro finalista è un invitato: ringrazi per il privilegio, non pagherà nemmeno il campo. È un altro il conto che dovrà saldare.

La terza palla della partita, sul 15 pari del primo gioco - servizio Cilic - fotografa in fretta la situazione psicologica. Marin si è aperto il campo al dritto, Federer è rimasto sulla risposta, basta un colpo facile da piazzare, nell’altro angolo, per portare il punto a casa. Invece Cilic spinge come se Roger fosse proteso al recupero, un proiettile inutile che esce di un buon palmo. Un autogol. Ma non è (soltanto) un suo errore. È un colpo che Federer gli ha imposto dall’iperuranio dei sette titoli a Wimbledon, oltre che tutto il resto: se vuoi batterlo, devi riuscire a esprimere colpi incredibili. Quando affronti Roger non hai mai lui solo di fronte, ma anche l’ombra enorme della sua leggenda.

A prescindere dal punto perso per manifesto timore, Cilic passa bene i primi tre giochi, picchiando duro sulle diagonali e palesando una specie di ordinata potenza che lo svizzero fronteggia con l’aria del monarca incuriosito. Al quarto gioco - servizio Federer - arriva addirittura una palla-break per il croato, 30-40 e seconda di servizio. In quel momento non lo sappiamo, ma è il momento chiave della finale, tecnicamente parlando la sua scena madre. Roger carica d’effetto la seconda e Cilic, come sorpreso dal rimbalzo alto, manda in rete un rovescio raffazzonato. Fugacemente, come due treni che s’incrociano ad alta velocità, si è aperto un varco nel quale - per un fulmineo istante - abbiamo potuto scorgere la realtà parallela di un Federer subito indietro di un break, e dunque in qualche modo vulnerabile. Varco richiuso in un amen, e nel gioco successivo, disegnando un punto di smorzata e controsmorzata che a lungo vedrete negli spot del tennis, Federer fissa il break vero, quello che lo porta avanti per non venire più raggiunto. Ma stiamo parlando di Roger: per lui non sono passati due TGV, ma due carrozze a cavalli. Infilare la pallina fra loro è stato un giochetto.

Succede così che Federer vinca 6-3 il primo set, e prenda subito il largo anche nel secondo: 3-0, e quando Cilic va al cambio di campo si accascia sulla sedia come schiacciato da tutta la delusione del mondo. Si copre il viso con l’asciugamano, le lacrime prima si intuiscono e poi si vedono, copiose, mentre medico e fisioterapista provano a farsi spiegare il problema. Lo vedremo dopo, alla fine di un secondo set che è un’esecuzione: il croato ha un piede robustamente bendato, forse piagato da una vescica, e la menomazione nel giorno più importante e difficile della sua carriera - ha già vinto uno US Open, ma Wimbledon è Wimbledon - l’ha portato al crollo nervoso. Molto umano. Se affrontare Federer è un compito proibitivo, aspiri almeno a provarci al massimo delle tue possibilità, e ti disperi se non va così.

Un antidolorifico rimette Cilic in piedi per il terzo set, ma la competizione è finita. Federer sbaglia qualche colpo semplice, come spesso succede a chi ha un avversario dolorante, ma tiene comunque la rotta con sicurezza fino al secondo match-point, un servizio che va a bersaglio decretando ciò che un anno fa era impensabile: l’ottavo titolo di Wimbledon - record assoluto, non più condiviso con Sampras - del tennista più forte della storia. E siccome l’eleganza è il primo elemento fondante di questo fuoriclasse, la vittoria viene accolta senza la scivolata al suolo di prammatica - scelta frequente nella liturgia del torneo - ma con un semplice, commosso sorriso. Marin Cilic ha onorato la partita e l’avversario rimanendo in campo a subire una punizione ormai scritta, Federer gli restituisce la cortesia esultando in modo misurato e composto. Gesti bianchi meravigliosi, per chi ama cercarli con gli occhi e lo spirito.

Sono momenti di armonia assoluta, nei quali stile ed eleganza sembrano pronte a salvare il mondo. Poi Mirka espone le due coppie di gemelli, e anche a Roger escono le lacrime. Vorrebbe essere lassù con loro, magari a dire “tutto questo un giorno sarà vostro”. Nessuno potrebbe opporsi. Dopo otto titoli nell’arco di quattordici anni, persino William e Kate - ci perdoneranno - non sembrano più gli eredi al trono, ma ospiti nel giardino del re. Quello vero.