David Goffin, il 'piccolo' tennista che tutti i 'grandi' non digeriscono

“Fluttua come una farfalla, colpisci come un’ape”. Richiamare un paragone così altisonante è quantomeno azzardato, ma funzionale per descrivere cosa serve per sconfiggere Carlos Alcaraz: velocità, di piedi e di pensiero, e cinismo, inteso come trovare il vincente non di potenza, ma di piazzamento. Qualità proprie di un maestro di tecnica e di tattica come David Goffin. Chi si è avvicinato al tennis dall’anno 0, inteso come 2020, anno in cui Jannik Sinner ha vinto il primo titolo ATP, non ha familiarità con questo nome. Chi si affida agli highlights per individuare il talento, probabilmente non troverà i riscontri che cercava. Chi, invece, incrocia i dati che vengono dal palmares e dallo stile di gioco, sa di avere di fronte un altro di quelli che “senza i big 4 avrebbero vinto molto, ma molto di più”. Clichè, ma vero. David Goffin è stato numero 7 nel ranking ATP – diventando tra l’altro il primo belga a debuttare tra i primi 10 tennisti al mondo – e ha vinto sei titoli ATP. E ancora: Goffin ha raggiunto i quarti di finale in tre Slam su quattro ed è stato in finale alle ATP Finals, sconfitto da Grigor Dimitrov, e a Cincinnati nel 2019, fermato da Daniil Medvedev. Ognuno di questi traguardi spiega perché, ancora adesso, a 34 anni, nessuno vuole trovare il belga nel proprio lato di tabellone. Essere stato un top ten vuol dire aver raggiunto la maturità. Maturità che significa soprattutto saper gestire le energie per una stagione intera, non deludendo mai nei tornei importanti e diventando colui che viene inseguito, non che insegue. Aver alzato al cielo più trofei nel circuito maggiore e aver giocato finali importanti vuol dire essere riuscito a capitalizzare la promessa di qualità superiori rispetto agli altri, perché arrivare in fondo una volta in un torneo può anche essere fortuna, vincere un titolo può generare appagamento, ma vincerne tanti è segno di lucidità. Basti pensare a tutti quelli che ancora inseguono la prima gioia a livello ATP – viene subito in mente Davidovich Fokina – o a chi si è ritirato senza provarla, su tutti Benneteau e Krajinovic. Essere stato membro del “the last eight club” in tutti e quattro i Major è sinonimo di continuità e versatilità. Intesa come la versatilità di prendere il proprio tennis e di adattarlo a qualsiasi superficie, dalla lenta terra rossa del Roland Garros all’imprevedibile erba di Wimbledon, fino al cemento incandescente degli Australian Open. Essere versatili richiede avere dentro di sé leggerezza, parola-chiave pensando alla struttura fisica di Goffin: alto 1,80m – minuscolo se paragonato a Zverev, Medvedev e Tsitsipas, ma anche soltanto a Sinner – il belga ne ha guadagnato in agilità negli spostamenti laterali e ha sopperito al limite di non avere un servizio da bombardiere con un tennis che assorbe la potenza altrui e anticipa i tentativi di sfondamento con improvvisi cambi di ritmo, a volte anche in controbalzo – ed è qui che si intravede l’ispirazione a Roger Federer spesso citata da Goffin. In gergo si chiama intelligenza tattica, una qualità probabilmente acquisita nel tentativo di trovare lo sport 'giusto'. David da piccolo aveva provato con il calcio e con la pallamano, prima di capire che, nonostante la stazza, il tennis era la via da seguire. E se poi in casa hai papà Michel, allenatore a Barchon, e al circolo hai il supporto di Michéle Gurdal, diventa tutto più facile. La leggerezza, poi, si lega a un’altra parola-chiave per raccontare Goffin: la longevità. Longevità non esente da infortuni, spesso anche gravi. A settembre 2013 durante un allenamento in Coppa Davis, il belga si frattura il polso sinistro ed è costretto a chiudere in anticipo una stagione che doveva essere di consacrazione e che invece è diventata di 'remissione'. Goffin ha 23 anni e, si sa, iniziare a 'toccare' una giuntura delicata così presto è pericoloso – chiedere informazioni a Del Potro e Thiem. Il belga, però, reagisce a modo proprio: con intelligenza. Uscito dalla top 100 a marzo 2014, chiude l’anno in top 20, con in mezzo i due titoli ATP 250 a Kitzbuhel e a Metz, una striscia di 25 vittorie di fila in estate tra Challenger e circuito maggiore e il premio di “Comeback player of the Year”. Cinque anni dopo, nel 2018, nel momento in cui Goffin sta vivendo il miglior momento in carriera, un altro infortunio, paradossale, gli costa quasi due mesi di stop: in semifinale a Rotterdam contro Dimitrov il belga è costretto al ritiro perché colpito da una pallata in un occhio. Poco più di sei mesi dopo, invece, a dare noie è il gomito destro e – come nel 2013 – un’altra stagione finisce a settembre. Il Covid-19 potrebbe essere occasione di resettare i problemi fisici, ma il 2021 è un altro annus horribilis, tra la distorsione alla caviglia sinistra ad Halle e un fastidio, diventato ormai cronico, al ginocchio sinistro che, neanche a dirlo, è il motivo per fermarsi – ancora – a settembre. I segni dell’età che si alleano con i segnali che arrivano dal corpo: perché, dunque, continuare? La risposta arriva, ancora una volta, dai numeri, che d’altronde ben si conciliano con chi trasforma il tennis in un gioco di matematica: escludendo il 2023, dal 2019 in poi Goffin si è sempre portato a casa almeno una vittoria in stagione contro uno tra Zverev o un top player spagnolo. Curioso, ma vero: l’attuale numero 2 al mondo non ha mai nascosto di detestare le sfide con il belga, che gli si è messo di traverso ad Halle, nel 2019, a Monte-Carlo, nel 2021 e a Shanghai, sei mesi fa. Né va meglio ad Alcaraz: nel 2022, alla prima partita di Carlitos da numero 1 al mondo – il più giovane di sempre – lo spagnolo si lasciò irretire dalla ragnatela intessuta dal belga, che partecipava da lucky loser all’ATP 500 di Nur Sultan. Davide contro Golia, o meglio, David contro Carlitos. Una storia che sembrava una coincidenza, ma che si è ripetuta a Miami neanche dieci giorni fa. E se il Sunshine Double ci lascia in eredità un circuito ATP senza re, aspettando il ritorno di Sinner – in effetti, unico tra i nuovi big 3 che Goffin non ha mai sconfitto – l’impressione è che ci possa essere posto per tutti tra i primi 32 al mondo, che vuol dire essere teste di serie nei Masters 1000 a 96 giocatori e negli Slam. D’altronde, in un periodo storico in cui la classe 2000 va forte, fortissimo, con ben 12 rappresentanti nei primi 30 al mondo , mentre la classe “Nineties”, guidata da Zverev, Medvedev e Tsitsipas si chiede come poter evolversi, serve anche chi, con la propria esperienza, spieghi ai più giovani 'come si fa'. Alla David-maniera.

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