Di padre in figlio: la spensieratezza di essere El Aynaoui

“Ma lo sai che mio figlio gioca a calcio?”. A volte mi dico che se l’avessi capito prima, sarei andato molto più a fondo. Ma Younes El Aynaoui è sempre stato così: leggero, sereno. Felice. E penso che l’immagine di suo figlio Neil a Roma lo abbia riportato indietro a quei tempi in cui ha vissuto in Italia. Aveva poco più di vent’anni. Anzi, li avevamo. Perché siamo coetanei, e a Torino ci siamo allenati insieme tra il 1993 e il 1994. Ci siamo anche sfidati nel ‘94: Atp a Bologna. Vinsi io, ma fu tosta: era forte, aveva un fisico pazzesco. E si divertiva. Quando ho letto che la Roma era in trattativa per acquistare Neil El Aynaoui, ho sorriso: “Guarda un po’, proprio il figlio di Younes!”. Mi sarebbe piaciuto parlarne anche un po’ di più con lui. Mi aveva accennato della sua carriera l’anno scorso, quando ci siamo incrociati a Wimbledon: lui era con Gaston, io con Nardi alle qualificazioni. Era stato un incontro rapido. Quest’anno ci siamo rivisti di nuovo a Londra, ma proprio di sfuggita: lui era ad Aorangi con Gaston, io ero a seguire il torneo per Sky e non avevo con me il braccialetto per poter entrare. Ci siamo salutati, ma nulla di più. O certamente di Neil avremmo parlato, anche perché mi ricorda un po’ il percorso inverso che ha fatto Cobolli. Flavio da piccolo si era trovato davanti a una scelta difficilissima: giocava molto bene a calcio nelle giovanili della Roma e Bruno Conti vedeva in lui un talento pronto a esplodere. Ma era bravo anche a tennis, e quella della racchetta fu una decisione molto sofferta, soprattutto perché rinunciava di coltivare il sogno di giocare per la sua squadra. Certo, le lacrime che abbiamo visto a Londra poco tempo fa sono la dimostrazione che quella scelta così forte alla fine abbia pagato, e di questo sono felice: d’altra parte, concedetemi la battuta, tra un campo di calcio e l’erba di Wimbledon la differenza poi non è nemmeno troppa… Probabilmente il figlio di Younes ha fatto meno fatica: giocava a tennis, ma nel periodo in cui il padre ha vissuto a Barcellona si è appassionato così tanto al calcio, che alla fine il pallone è diventata quasi la conseguenza naturale. Quello di cui sono certo è che il papà non gli ha mai messo pressioni. Non è nella sua indole. Anzi, è proprio una cosa che respinge con forza. Lui, con quei capelli a cespuglio che sono diventati famosi. Mi ricordo che con Karim Alami e Hicham Arazi avrebbe potuto vincere più di una Davis con il Marocco, se solo fossero riusciti a fare un po’ più di squadra. Avevano ciascuno delle qualità specifiche, ma Younes spiccava per il servizio dritto, che era micidiale. E poi, come scrivevo poco sopra, fisicamente era davvero un fenomeno. Mi ricordo una sessione di allenamento con lui: venivamo da un doppio allenamento, e il mio allenatore, Edoardo Infantino, ci fece fare il test di Cooper . Dopo una doppia seduta, non è facilissimo fare quel test. Ci vuole fiato, resistenza. Io ero rimasto molto soddisfatto dal mio risultato: 3mila metri. Stavo bene, e quella distanza ne era la piena dimostrazione. Poi vidi quanto fatto da El Aynaoui: 3600 metri. Pensai che era una bestia. E lui sorrideva. Perché una cosa non gli manca davvero mai: il sorriso. E sono convinto che questa spensieratezza sia riuscita a trasmetterla anche al figlio. Younes ha conosciuto il calore di Roma al Foro Italico, spiegherà di certo a Neil cosa voglia dire lo Stadio Olimpico. Ma non gli porrà aspettative: a quello penserà Gasperini, che può fargli capire davvero come alzare il livello. E se, oltre al carattere, El Aynaoui avrà acquisito anche parecchie doti fisiche del papà, allora ci sarà un fantallenatore in più che scommetterà su di lui: io.

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Stefano Pescosolido