US Open, l’emozione che rivivo ogni volta

Riguardo quella foto. Sorrido. Mi sembra una vita fa: in dieci anni è cambiato tanto, se non tutto. Ho vinto gli US Open 2015 e vivo ancora adesso due emozioni diverse: da un lato, mi sembra ieri; dall’altro invece mi chiedo, ma sono stata davvero io? Se guardo indietro, quasi mi pare la vita di un’altra persona: sono diventata mamma di tre bellissimi bambini, mi sono dedicata molto alla famiglia, anche perché spesso Fabio si trovava fuori casa per giocare i tornei. Solo negli ultimi due anni mi sono imposta di ritagliarmi più tempo per altre attività che mi piacciono, come per esempio tornare a giocare per le legends al Roland Garros o a Wimbledon. Perché ritorni a vivere determinati ambienti, recuperi una routine di quando eri in campo, respiri di nuovo quell’aria, quella competizione. E tornare a New York per lo speciale che realizzeremo con Sky Sport sarà una grande emozione: in questi anni ho imparato a raccontare il tennis, a spiegarlo. Ecco, spiegare quel trofeo sarà adrenalina pura. Inaspettato, ma non casuale Parto subito da questo principio: nel 2015 ho vinto e non me l’aspettavo. Ma non ci sono arrivata per caso. È vero però che non mi trovavo nel mio momento migliore: non stavo giocando benissimo, non ero al top e sapevo che quella sarebbe stata la mia ultima stagione. Non l’avevo detto a nessuno, ma nella mia testa era già così. E quindi me la sono giocata in maniera diversa. Non con serenità, perché non è mai vero che non si ha niente da perdere. Ma ho deciso di pensarci partita dopo partita, senza l’obiettivo necessario di arrivare in finale: non avevo cominciato benissimo, sono cresciuta a poco a poco. Mi ricordo ancora quando parlavo con il mio allenatore, Salvador Navarro, e il mio fisioterapista, Massimo Tosello. Dopo la prima partita, mi hanno detto: “Dai, Flavia: meno 6”. Poi sono diventati meno 5, meno 4… “Oh, ma siamo a meno 3!”. Ci divertivamo molto e io mi sentivo sempre più a mio agio: ogni tennista ha un ‘suo’ campo, una ‘sua’ superficie. Per me è sempre stato New York, dove tutto è molto show e dove, soprattutto, penso di aver giocato le mie partite più belle. Una di quelle è stata sul centrale, nel 2009, contro Zvonareva: lei era top 10, io sono riuscita ad annullarle 7 match point e ad arrivare ai quarti, quando poi sono uscita contro Serena Williams. Perdonatemi la digressione, ma è importante. Serena ha rappresentato un altro sport quasi per tutte noi. Era praticamente ingiocabile. Con lei ho faticato sempre. Ccome con Ana Ivanovic: ecco, lei non mi faceva mai esprimere bene. Ana ha rappresentato per me quello che io ho rappresentato per Stosur: al quarto turno del 2015 sapevo che l’avrei battuta e quindi aspettavo di andarmi a giocare la fase finale. Ma non sapevo come sarebbero andate le altre partite, soprattutto la semifinale. Di fronte avevo Halep. Ho vinto 6-1, 6-3: lì ho capito che avrei davvero potuto vincere il torneo. Boato & stordimento La consapevolezza è cresciuta partita dopo partita. Ma in finale sia io che Roberta siamo arrivate tesissime. Piano piano mi sono presa il primo set, che è stato determinante. Voglio concentrarmi sul match point. Mi è riuscito uno schema di gioco che ho allenato per mesi e che in partita non mi riusciva mai: un bel colpo in sventaglio che è caduto proprio sulla linea. Ho gettato la racchetta per terra e alzato le mani al cielo. E ho provato una felicità pura, intensa. Non commovente, ma pacifica. Era la ricompensa di una carriera bellissima, la chiusura perfetta di un cerchio. La sera ero come ubriaca, stordita, quasi non mi rendevo conto di dove fossi. Ero al settimo cielo e sono andata a dormire stanchissima. Fabio dall'Italia mi aveva fatto uno scherzo per cui ha rischiato di fare i conti a casa. Non mi rispondeva per ore: sua sorella Fulvia era stata complice, mi aveva detto che il suo telefono era a fare un aggiornamento e per quello non poteva rispondere. E invece era in aereo, con la febbre, per arrivare a New York. Quando l’ho visto, prima di giocare, per un piccolo momento... l’ho odiato! Ma alla fine si è salvato… Amo molto New York, amo molto gli US Open. Sarà bello raccontare tutto, rivivremo insieme quell’estate mentre sul campo scenderanno i campioni di oggi. Sarebbe troppo facile dire loro di godersi il momento: un Grande Slam è sempre pieno di aspettative che un giocatore dà anche, se non soprattutto, a sé stesso. Per questo il mio vero consiglio è quello di accettare quello che arriverà: il torneo è lungo, puoi giocare al 100% o svegliarti la mattina ed essere al 60%, per poi riuscire a portarla a casa comunque. È stressante ma incredibilmente stimolante. Il più grande risultato si raggiunge quando si è consapevoli di essere riusciti a dare il massimo, quando di più proprio non si riesce a fare. Un Grande Slam è così. Il mio Grande Slam è stato così. E scriverlo me lo conferma: la Flavia che ha vinto nel 2015 in realtà è la stessa del 2025. Ma ancora più felice.

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Flavia Pennetta