Il caos di Flushing Meadows contro il rigore di Wimbledon: tennis agli opposti

È trascorsa solo qualche settimana dalla stesa che Sinner ha mollato a Carlitos sul Centrale, eppure sembra una vita. Colpa delle atmosfere uimbledoniane, così diverse dal casino di New York da ingigantire lo spazio e pure il tempo che li separano. Da una parte il profumo dell’erba appena rasata a 8 millimetri, dall’altra l’afrore di un altro tipo di erba, mescolato a hot dog e luci al neon. Non è un giudizio, piuttosto una constatazione. Di qua dall’oceano il bianco obbligatorio, di là il technicolor. Da una parte il suono dei colpi si confonde con lo scoppiettio dei tappi di champagne, dall’altra col beatbox sincopato dell’hip hop onnipresente. E potremmo continuare a lungo, perché Wimbledon e US Open usano le stesse palle e racchette, ma è l’unica analogia tra mondi che più distanti non potrebbero essere. Una cattedrale che esige modi rispettosi o un luna park cui manca solo il calcinculo per dirsi davvero completo. La prima pretende un silenzio ossequioso, il secondo ti rincretinisce di watt a ogni santissimo cambio campo. Educazione, retaggio e tradizione contro smanicati, rumore, libertà. Forse non bisogna scegliere. Forse l’equilibrio perfetto è proprio lì, tra il nodo alla cravatta di Federer e il berretto al contrario di Agassi. Tra una fetta di torta Victoria e un trancio di pizza a Brooklyn. Due modi di amare il tennis, due modi di stare al passo coi tempi. Federer e Sampras hanno vinto New York ma amato solo Wimbledon come si ama una donna eterea che ti sfida a essere elegante. Agassi e Connors hanno trionfato a Wimbledon ma hanno fatto sesso solo con New York, come chi sa di essere a casa propria e al diavolo le buone maniere. Solo McEnroe ha messo a ferro e fuoco entrambi: possedendoli con genio, nervi e talento puro. Serena, sovrana di Flushing, a Wimbledon è sempre entrata come a un ricevimento, con il tacco alto ma senza mai piegarsi al dress code dell’anima. Wimbledon ha il falco Rufus che scaccia i piccioni e il Royal Box. New York ha i piccioni che beccano la pizza per strada. Tradizione contro modernità. A Wimbledon viene la tentazione di scusarsi dopo un vincente troppo violento. Allo US Open urli e ti batti il petto dopo un ace a 240 km/h. A Wimbledon si applaude con discrezione, si beve Pimm’s, si mangiano fragole con panna. A Flushing si strepita, si fischia, si tifa come in uno stadio NBA. Arthur Ashe Stadium, 23.000 posti, è La Bolgia. Ti chiama per nome, ti giudica, ti ama e ti molla nel giro di due set. Il centrale di Wimbledon è la perfezione. Il tetto si chiude con grazia, come il sipario in un teatro del West End. A Londra si gioca in bianco per decreto divino. All’inizio non era una regola, era buon gusto. Ora è un diktat. New York è libertà sartoriale: Agassi in denim, Serena in tuta nera di pelle, Kyrgios in Jordan. Lì si può osare. Wimbledon ti vuole elegante, Flushing ti vuole vero. Wimbledon ti insegna a stare al mondo. Ti sussurra che la misura è tutto, che si può essere grandi anche stando zitti. Flushing ti ricorda che il mondo è caos, e che devi urlare forte per farti sentire. Sinner e Alcaraz conoscono i codici segreti di entrambi, hanno trionfato sia qua che là. Se ogni torneo è una maschera, Wimbledon è il volto imperturbabile di Sinner; New York è un ghigno sfrontato di Alcaraz. Tra un’ombra lunga sull’erba e una luce al neon nel Queens. Tra fragole con panna e pretzel salati. Tra l’aplomb e l’assalto. Tra due mondi che si fronteggiano da un secolo, con lo stesso colpo, il rovescio della medaglia.

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Stefano Meloccaro