Sinner, tornare numero 1 a Parigi è ancora più bello

Ormai è giorno, è domenica. A Parigi non piove, per il momento. Le finestre sono quasi completamente asciutte, ma il cielo, grigio, promette bufera. Giorno di festa, giorno di re e di regine: il taxi corre veloce sugli Champs Elyses, perché, per la prima volta nella settimana, non deve incontrare traffico di lavoratori sempre di fretta, sempre obbligati a essere produttivi, sempre condannati allo stakanovismo. A correre è soltanto chi fa jogging sfidando il vento mentre si arriva davanti all’Arc Du Triomphe e il vetro si appanna completamente travolto dalle gocce che iniziano a scendere violente. Attraversare la città è come passare in anelli concentrici dove la pioggia si calma e il sole prova a trovare un varco, venendo seccamente respinto da un branco di nuvole cattivissime. Bisogna fermarsi davanti alle transenne. Per andare oltre è obbligatorio camminare. Lei è lì. La Tour Eiffel. La Tour Eiffel è per Parigi quello che il Colosseo è per Roma: la fermata obbligatoria, la regina, scritto a caratteri cubitali. La Tour Eiffel è lei, è il simbolo, con l’articolo rigorosamente in maiuscolo, è l’icona in un’epoca in cui si abusa – non poco – di questa parola. Guardarla dal Trocadero ha qualcosa di romantico e al tempo stesso di ineffabile, di grandezza appena soltanto percepita, ammirata, ma non vissuta. Avvicinarsi a lei, invece, è come rischiare di rimanere pietrificati davanti a Medusa. Ferraglia: così dicono quelli che non sono mai stati a Parigi o che non ci vogliono andare o che non sono riusciti a fondersi con la città, lasciandosi assorbire da suoni, colori, odori e soprattutto sensazioni. Lanciare lo sguardo sempre più su è un esercizio di architettura, che permette di perdersi nelle maglie metalliche perfettamente intrecciate, mentre gli ascensori portano i turisti sempre più in alto, fino a sovrastare Parigi stessa e a diventare più imponenti di lei. Nel frattempo, si corre la 12^edizione della “Ekiden Paris Marathon”, metà maratona, metà staffetta in cui squadre di sei persone, dopo essersi riscaldate con esercizi di Zumba fitness sulle note di Macklemore e Britney Spears, attraversano la città per 42 km, costeggiando la Senna e lasciandosi incoraggiare dall’energia portata dal gruppo brasiliano Talabatuc. Quai Chirac, che è la via formalmente perpendicolare alla Tour Eiffel, è punto di partenza e di arrivo insieme e l’energia che si respira è contagiosa, come se non esistesse “un soffitto a contenerla”. Nell’eventualità che un’immagine così non sia sufficientemente suggestiva, a quindici, forse venti passi di distanza, ci sono ancora i cinque cerchi, segnale che le Olimpiadi sono state a Parigi e che è stato un successo, sia per le 40 medaglie vinte dall’Italia, sia perché comunque le Olimpiadi non possono mai essere un fallimento. Ed è vero, il tennis non vive squisitamente pensando ai Giochi, perché a essere ricordati sono i campioni negli Slam, non chi ha a casa una medaglia d’oro. Eppure, proprio in Francia, quelle due parole “Champion” e “Olympique” si caricano di un significato di purezza e di immanenza sportiva, di epicità e di unicità. Di campioni olimpici in attività al maschile ne esistono soltanto due, Djokovic e Zverev, e basta pensare alle lacrime di Novak sul Philippe Chatrier e alla fierezza di Sascha tutte le volte che si sente chiamare così per comprendere che esistono vittorie che vanno oltre, simboli leggendari per qualsiasi bambino che sogna con un lessico di sport e che momenti di orgoglio che rimangono eterni. La pioggia per il momento sembra sconfitta e il sole squarcia il Trocadero, riscaldando le braccia infreddolite. La Senna emette un richiamo irresistibile. Esiste una Tour Eiffel che tutti vedono, maestosa e bellissima e, in autunno, esiste una Tour Eiffel riservata e nascosta, protetta dalle foglie arancioni che si staccano dagli alberi incastrandosi tra i sanpietrini che costellano i marciapiedi. Guardarla è magico, guardarla significa capire Parigi. Il sole sa di essere attore non protagonista e si limita a emanare raggi che rifrangono gli alberi, creando giochi di luce impossibili da fotografare – ma bisogna quantomeno provarci. La Senna non ha odore per chi si limita a passarle di fianco mantenendo una distanza di sicurezza, mentre i battelli sfrecciano in continuazione sull’acqua sempre calma. Regna la calma: i taxi si sentono soltanto in lontananza e le biciclette rispettano il ritmo imposto da chi cammina. I ristoranti sono un mondo in miniatura in una tra le città che custodisce più gelosamente la propria identità. Passeggiando verso Est, cambiare riva è un ballo che permette di attraversare più di un ponte, tutti abbelliti da lucchetti che sono dichiarazioni d’amore, come tanto andava di moda 15 o 20 anni fa. A sinistra il Palazzo di Tokyo, che non è un angolo di Oriente a Parigi, ma un “semplice” Museo di Arte Moderna; a destra il Palazzo Borbone, che ospita l’Assemblee Nationale: ogni metro vale una sosta, ogni angolo vale una giornata. L’Hotel des Invalides e i Giardini del Louvre rimangono a sorvegliare le due rive dall’alto, irretendo i turisti dalle gambe stanche, ma dalla curiosità inesauribile. I rami, gialli, di alberi in tenuta quasi già invernale proteggono le persone dalle gocce di pioggia in cerca di vendetta e qui, nel cuore di Parigi, il verde non è mai stato così verde. La pazienza di arrivare fino al Museo del Louvre è premiata da un cielo misto di azzurro e di grigio e dalla lunga fila di chi ha prenotato da mesi per poter vedere la Gioconda. Sulla strada che porta a Notre Dame, finalmente, iniziano a vedersi le arti, in forma di ritratti, cartoline, poster di film e di imprese sportive, quadri in miniatura che riportano indietro alla Tour Eiffel. Questa è la Parigi che tutti sognano: la Parigi puntellata di chioschi e di negozi di souvenir, aspettando che la Senna inizi a gorgogliare. Notre Dame è bellissima, finalmente senza impalcature. Anzi, Notre Dame è talmente bella che le persone scelgono di tenere una rispettosa distanza, godendosela, osservandola nei minimi dettagli gotici e fermandosi a riflettere sul patrimonio che stava per andare perduto. Non piove più, ormai rimangono per terra soltanto le pozzanghere e la segnaletica avvolta tra gli alberi. “Ici, c’est Paris”. Archiviata la finale di doppio, con il titolo vinto da Heliovaara e Patten, parigini e non aspettano soltanto una persona: Jannik Sinner. La “dance cam” prima di una finale a tratti è fastidiosa e a rubare la scena sono soprattutto le tante, tantissime bandiere italiane in tribuna. Auger-Aliassime raccoglie una parte di tifo perché di madrelingua francese, ma Sinner ha l’aura di chi è talmente più forte da vincere la finale già nel tunnel prima di entrare in campo, mentre, ancora nascosto dalla luce verde acqua che tenta di regalare un improbabile effetto sorpresa, si ritaglia un momento per sé stesso e per i pensieri da tenere a freno fino a fine partita. Il sorriso di Jannik mentre viene annunciato sul Centrale è di chi non sa soltanto chi è, ma sa anche quello che vuole: tornare numero 1 al mondo, anche se – per il momento – soltanto per una settimana. Auger-Aliassime paga il leggero nervosismo accennato entrando in campo, con il volto tirato giusto quanto basta per subire il break in apertura di primo set e non riuscire più a recuperarlo. La Francia ha ancora in mente cosa era successo un anno prima a Bercy, con Humbert paralizzato dalla chance nelle proprie mani e Zverev sornione, e spera che tutto questo non avvenga di nuovo a Nanterre. Detto questo, alzi la mano chi ha pensato che Sinner potesse davvero perdere questa finale. Tale è l’anatomia di Jannik: non soltanto un modello di tecnica e di impatto cinetico con il dritto e con il rovescio, ma anche una incarnazione di ineluttabilità nascosta sotto un sorriso gentile e sotto la calma – che sa essere a volte furente – di chi domina più che annullare i propri pensieri. Non è vero che Sinner non sbaglia: semplicemente sa anche qual è il momento più giusto per tentare e sbagliare. Non è casuale che, infatti, Auger-Aliassime chiuda la partita senza avere palle break. Il pathos, obiettivamente da ricercare per più di un’ora, quantomeno compare nel tiebreak del secondo set, perché, in fondo, non si sa mai. Però Jannik è una certezza, è la sicurezza di prendere sempre la decisione giusta, è il faro contro cui si infrangono pronostici di rimonta e una speranza – forse anche comprensibile – da parte di chi è in tribuna, di vedere sempre più tennis. Jannik Sinner vince il Masters 1000 di Parigi . Per lui questo è il 23° titolo in carriera, il quinto nel 2025 e di categoria Masters 1000. Cinque mesi prima, il Roland Garros era stato il teatro di quella che rimarrà la delusione più struggente sul campo. Però non esiste persona a cui è concesso di rimanere arrabbiata per molto con Parigi. La stessa Parigi nella quale è più bello diventare o tornare numero 1 al mondo. Il cuore di un tennista si vede durante una cerimonia di premiazione ed è nascosto nei gesti più piccoli, appena accennati, impercettibili per i più. Sinner ha ancora le mani sul volto mentre rivede nel led in che modo è riuscito a chiudere la partita contro Auger-Aliassime. Le braccia al cielo di Jannik sono un’esultanza che non è soltanto diventata marchio di fabbrica, ma anche una sobria e composta necessità di prendersi il proprio tempo per metabolizzare ogni traguardo. In panchina, Felix più che deluso è svuotato, stanco da una settimana in cui, comunque, ha messo il pilota automatico per andare alle ATP Finals di Torino. Sinner per un attimo lascia che tutti gli leggano negli occhi pensieri mai banali mentre cerca di sistemarsi i capelli prima di ricevere il trofeo che in fondo voleva così tanto. Nel momento in cui viene chiamato a parlare per il tradizionale discorso di fine torneo, Jannik accenna un sorriso quasi preoccupato, non riuscendo a trattenere umiltà e riservatezza. Una fontana pirotecnica si illumina dietro di lui nel momento in cui Yannick Noah gli consegna ufficialmente il tradizionale arbusto in bronzo di Parigi che più che una coppa è un racconto di un torneo irripetibile. Il tempo per chiacchierare non basta mai e, un po’ stranamente, Jannik è ciarliero. Poi, però, i convenevoli iniziano a diventare troppi e non appena le parole finiscono, Sinner ci tiene a riprendersi il trofeo, proteggendolo con la propria mano, quasi a voler dire che è suo e di nessun altro. Il torneo si chiude con le immagini di Jannik e Darren Cahill che, scambiandosi l’albero di mano in mano, sembrano avere entrambi gli occhi lucidi. Che il 2025 sia davvero la fine di un’epoca? Per il momento, a Nanterre ne è cominciata una. Tre ore dopo la finale, Parigi è silenziosa, quasi spettrale. Di domenica sera i ristoranti preferiscono rimanere chiusi, se non è strettamente necessario attirare i turisti. Anche sui balconi iniziano a comparire le prime luci di Natale, ancora più brillanti nell’oscurità che avvolge Nanterre. La luna in cielo non è piena, ma si vede nitidamente. Nel frattempo, tra Metz e Atene, un ultimo rigurgito di race verso le ATP Finals sta già andando in scena, ma lo spettacolo sembra quasi finto. In televisione si parla soltanto di Jannik Sinner, il volto che conta, il nome da ricordare. Non è formalmente così, ma la “regular season” di tennis, per dirla con un lessico da NBA, sembra davvero finita. Ci vediamo a Torino. DIARIO DA PARIGI GIORNO 6 DIARIO DA PARIGI GIORNO 5 DIARIO DA PARIGI GIORNO 4 DIARIO DA PARIGI GIORNO 3 DIARIO DA PARIGI GIORNO 2 DIARIO DA PARIGI GIORNO 1

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Michela Curcio