La rivoluzione culturale delle Finals di Torino: cosa rappresentano per un tennista

È il torneo più ribattezzato nella storia del tennis. Masters Grand Prix, ATP Tour World Championships, Tennis Masters Cup, ATP Tour Finals, finalmente ATP Finals. Un carosello di sigle, sponsor, sedi e grafiche. Ma il succo, in fondo, non è mai cambiato: si tratta degli otto migliori giocatori della stagione, due gironi all’italiana, classifiche da stilare come ragionieri, semifinali, finale, incoronazione del Maestro dei Maestri. Siamo rimasti in pochi a chiamarlo ancora ‘Master’, una confidenza che possono permettersi solo quelli che se lo ricordano in bianco e nero. Quelli che parlano di Finals o sono addetti ai lavori, o sono sinneriani dell’ultim’ora, o più probabilmente vogliono risultare moderni, connessi, fluenti in tennistico snob. Comunque vanno guardati con sospetto. Il test generazionale è innegabile: se lo chiami ancora all’antica sei uno che si ricorda Borg e i completi Fila, che ancora si emoziona quando impugna una racchetta di legno. Viceversa, quelli che “le ATP Finals…” probabile abbiano un profilo Instagram pieno di cuoricini. In ogni caso, essere uno dei magnifici otto è un privilegio raro, un sigillo d’eccellenza. Questo sapore aristocratico nei decenni non è mai tramontato. Andare al Master cambia la carriera e cambia anche la percezione che il mondo ha del giocatore. Lo sa bene Matteo Berrettini, che nel 2019 riportò un italiano in quel club esclusivo dopo quarant’anni di assenza. Prima di lui solo Panatta e Barazzutti, quando i campi erano in legno, i pantaloncini corti e l’Italia guardava il tennis raccontato da Guido Oddo. In principio fu Tokyo 1970, da un’idea di Jack Kramer, il visionario che inventò il tennis professionistico. Fu lui a mettere ordine nel caos di tornei sparsi per il mondo, trovando infine sponsor, struttura e una sede per la rassegna finale: il Pepsi Cola Masters, da disputare nel Metropolitan Gymnasium. I sei partecipanti si allenavano su erba spelacchiata all’esterno del palasport, poi andavano a giocare i match sul cemento gelido, in un palazzetto senza riscaldamento. Spettatori con le coperte sulle gambe, giocatori col fiato che si condensa nell’aria. Vince Stan Smith . Jurassic Tennis. Poi arrivarono gli anni dorati del Madison Square Garden, New York come centro del mondo. Connors, Borg, McEnroe, Lendl, Becker: un’epopea di caratteri e racchette. È proprio lì, nel 1981, che Connors — con la grazia che lo contraddistingue da sempre — apostrofa come ‘chicken’ Ivan Lendl in diretta TV, accusandolo di aver perso apposta per evitare Borg in semifinale. Altri tempi, quando il tennis aveva più sangue e meno filtri, più umanità e meno algoritmi. Oggi è diverso, i ragazzi sono fin troppo perfetti. Educati, precisi, schermati. Attorniati da team, mental coach, nutrizionisti e social media manager. Non litigano, non improvvisano, non rischiano una parola fuori posto. Poi arrivano a novembre che sembrano reduci da una maratona lunga dieci mesi. Eppure ne hanno ancora, perché il Master è il Master, e ormai fa rima con Torino. La città che per una settimana si trasforma: piazze illuminate di blu, vetrine con palle gialle, alberghi pieni di lingue diverse. Il Po riflette i loghi delle Finals, i tram portano i simboli ATP e persino il freddo, quello piemontese, sembra più elegante del solito. Il tennis diventa un’esigenza collettiva: al bar si commentano i gironi, al mercato si discute del rovescio di Fritz, la Mole guarda verso l’Inalpi Arena. Al centro di tutto lui, ineffabile. Jannik Sinner. Campione in carica, simbolo di un’Italia nuova che non si accontenta più di assistere ai trionfi altrui. Torino lo adotta come un figlio, gli conferisce la cittadinanza onoraria morale e pure quella affettiva. Ogni sua movenza è un acuto di Mengoni a Sanremo. Vuole bissare, speriamo contro Alcaraz, per poi godersi la Coppa Davis dal divano di casa, da campione d’inverno. Musetti prova ad affiancarlo. Djokovic medita se incaponirsi per l’ennesima impresa o mollare tutto ai ragazzi. I nomi cambiano, i luoghi pure, ma l’essenza resta: le ATP Finals - altresì denominate ‘Masters’ - sono il punto di arrivo e insieme la promessa di un nuovo inizio. A Torino, quest’anno più che mai, ha il colore dei capelli rossi.

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La rivoluzione culturale delle Finals di Torino: cosa rappresentano per un tennista

Stefano Meloccaro