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NBA, la corsa al premio di rookie dell’anno 2017

NBA

Mauro Bevacqua

Fosse rimasto in campo più delle 31 partite disputate, la scelta a favore di Joel Embiid sarebbe quasi unanime. Il suo infortunio però ha cambiato le carte in tavola, con Dario Saric e Malcolm Brogdon a farsi avanti come soluzioni alternative

Quello destinato al miglior debuttante NBA è forse il premio destinato a mettere più in difficoltà i giurati tra tutti quelli da assegnare al termine di questo campionato. Il rookie più atteso della stagione – Ben Simmons, la prima scelta assoluta al Draft 2016 – non è mai sceso in campo, dopo il recupero più lento del previsto all'operazine subita al piede destro. Le scelte numero due, tre e quattro hanno rispettivamente 19 (Brandon Ingram), 20 (Jaylen Brown) e 19 anni (Dragan Bender), dato anagrafico significativo nel giudicare il loro possibile impatto immediato. I candidati con ogni probabilità più forti al titolo sono due giocatori scelti entrambi nel 2014, il primo esordiente sui parquet NBA dopo due anni trascorsi in infermeria (Joel Embiid), il secondo invece in Turchia (Dario Saric). Alle loro spalle, l’alternativa più credibile è quella di un giocatore – Malcolm Brogdon – selezionato soltanto al secondo giro, alla numero 36, da quegli stessi Bucks che con la decima chiamata gli hanno preferito il progetto a lungo termine Thon Maker. La singolarità di questa classe di matricole è ancora più evidente valutando il win share dei rookie 2016-17, ovvero l’indice che misura l’impatto di un singolo giocatore sul successo della squadra. Dei 10 rookie scelti al Draft 2015 titolari del maggior win share, 7 erano stati scelti ai primi 12 posti al Draft. I top 6 del Draft 2014 erano tutte scelte del primo giro, così come 8 dei top 10 del Draft 2013. Quest’anno, nessuna tra le primi 8 matricole per win share proviene dal Draft 2016, a sottolineare l’eccezionalità di questa classe di esordienti, che qualcuno ha già ribattezzato come una delle più deboli di sempre. Un premio, però, alla fine va assegnato e questi sono i candidati più credibili a mettere le mani sull’Eddie Gottlieb Trophy.

JOEL EMBIID

Perché sì

Scelto con la n°3 al Draft 2014, un infortunio e varie operazioni al piede destro ne hanno ritardato l’ingresso nella lega. Ottenuto il via libera (con condizionale: non più di 28 minuti il limite di impiego massimo concessogli dallo staff medico dei Sixers, più l’assoluto divieto di back-to-back), l’ex centro dei Kansas Jayhawks ha mantenuto ogni aspettativa sul suo conto, facendo registrare ottime cifre (20.2 punti, 7.8 rimbalzi, 2.5 stoppate e 2.1 assist a sera con una media di 25.4 minuti di utilizzo) e impressionando tanto in attacco quanto in difesa, come testimoniato dal primo posto tra le matricole per win share difensivo e dalla 14^ posizione nel ranking generale di tutta la lega – a quota 0.048 pareggia Jimmy Butler, ma si piazza davanti a difensori come Kawhi Leonard e Andre Robertson o a centri come DeAndre Jordan e Marc Gasol (votato nel 2013 miglior difensore NBA). In attacco la produzione per minuto di Embiid lo avvicina a quella di leggende del passato come Kareem Abdul-Jabbar, Wilt Chamberlain, David Robinson o Patrick Ewing o a quella di Anthony Davis tra i giocatori in attività, mentre in difesa le percentuali al tiro negli ultimi 2 metri dei suoi avversari sono state del 18% più basse della loro media stagionale. Joel Embiid ha messo in mostra un talento vario e versatile, racchiudendo in sé la pallacanestro del passato nella tradizione dei grandi centri NBA (impressionante la somiglianza di alcune giocate a quelle rese celebri da Hakeem Olajuwon) a una dimensione moderna che nonostante i  213 centimetri lo vede a suo agio anche in campo aperto, in palleggio o al tiro dietro la linea da tre punti (il 36.7% su più di tre tentativi a sera). I Sixers lo hanno naturalmente messo al centro del loro progetto tecnico, come testimoniato dal suo altissimo usage rate (36.3%, inferiore solo a quello di Russell Westbrook e DeMarcus Cousins) e dalla percentuale di azioni di squadra concluse da un suo tiro, passaggio, palla persa o viaggio in lunetta (il 40.2%, dato non lontano dal 41.3% di LeBron James e perfino superiore al 38.1% di Steph Curry). Un’ultima statistica conferma tutti i dati fin qui esposti: il PER (Player Efficiency Rating) di Embiid (24.1, con 15 come valore medio nella lega) lo classifica al 16° posto assoluto, appena dietro a Steph Cury, quasi il doppio di quello del suo più probabile avversario nella corsa al premio di rookie dell’anno, il compagno di squadra Dario Saric fermo a quota 12.74 (14.94 il dato di Malcolm Brogdon). Dubbi, insomma, ce ne sono pochi: se si considera quanto fatto vedere in campo, la matricola dell’anno 2017 è il centro n°21 di Philadelphia.

Perché no

Controindicazioni in merito? Tante, invece, e anche sostenute a gran voce da più parti. Un infortunio al menisco del ginocchio sinistro ha chiuso la prima annata NBA di Embiid dopo solo 31 partite (il 38% di quelle giocate dai Sixers) e un totale di 786 minuti (circa il 20% di quelli disponibili). Un frammento per molti insufficienti (su un calendario di 82 partite, lungo quasi 6 mesi) a qualificarlo per un premio chiamato a riflettere l’andamento su un’intera stagione. Il totale più basso di minuti disputati da un giocatore poi premiato come rookie dell’anno sono i 1.558 di Kyrie Irving nel 2012, quasi il doppio di quelli di Embiid. La media più bassa? Comunque oltre i 29 a sera, quelli sufficienti nel 2001 a Mike Miller per ottenere il riconoscimento, 4 in più di quelli del centro dei Sixers. Le sue assenze per infortunio minano in maniera per alcuni determinante le sue chance di vittoria, ma allo stesso tempo gettano un’ombra ancora più inquietante sul destino futuro di Embiid, che dal Draft a oggi in tre anni ha all’attivo meno gare in campo di Greg Oden, il nome che nessun lungo vuol sentire associato al proprio. 

DARIO SARIC

Perché sì

Da quando, il 20 gennaio, Joel Embiid ha smesso di scendere in campo con continuità (un’unica altra gara disputata, il 27/1, poi basta), Dario Saric è diventato il nuovo punto di riferimento dei giovani Sixers, avanzando con una certa convinzione la sua candidatura alla corsa per il premio di matricola dell’anno. Votato dalla NBA come il miglior rookie della Eastern Conference sia a febbraio (17 punti, quasi 8 rimbalzi, 2.8 assist e un recupero in 30.1 minuti di media) che a marzo (18.4 e 7 rimbalzi e 3.4 assist  di media, con anche il massimo in carriera a quota 32), Saric ha ricevuto l’investitura più inaspettata dopo la prestazione messa in scena allo Staples Center contro i Lakers: al termine di una gara da 29 punti, 7 rimbalzi e 5 assist, proprio Joel Embiid ha fatto il suo nome come quello del “miglior rookie della stagione”.

Perché no

A 12.8 punti a sera – la sua media attuale – Saric vincerebbe il premio con la quartultima media punti mai fatta registrare, dal 1952-53 a oggi, ma a penalizzarne ancora di più la candidatura sono alcuni dati statistici avanzati. Il suo PER è inferiore a quello medio NBA, ha una percentuale reale di tiro appena superiore al 50% (solo 23° tra i rookie) e i dati di squadra migliorano tanto per net rating che per plus/minus quando il croato non è in campo. Sia chiaro, per essere al suo primo anno nella lega Saric ha fatto vedere buonissime doti e grandi capacità di adattamento a una pallacanestro diversa da quella a cui è sempre stato abituato, dimostrando a soli 23 anni (che compie oggi, auguri!) una maturità sicuramente superiore a quella dei suoi coetanei nella lega. Il numero più significativo a sostegno della sua candidatura, però, rimarrà quello sotto la colonna “GP – Games Played”, partite giocate, perché la fragilità del suo compagno (e sponsor) Embiid non fa che esaltare la capacità del croato di disputare tutte le partite della sua annata d’esordio (appena meno della metà in quintetto). Ed è già qualcosa. 

MALCOLM BROGDON 

Perché sì

La 36^ scelta all'ultimo Draft è un giocatore che è rimasto non quattro ma ben cinque anni al college, a Virginia (dopo aver perso una stagione, ma mantenuta l'eliggibilità, per un'operazione al piede sinistro), dove è stato votato giocatore dell'anno della Atlantic Coast Conference – un premio per l'attacco, uno per la difesa – nel suo anno da senior. Eppure a livello NBA ha sorpreso molti, almeno tutti quelli che lo hanno sottovalutato il giorno del Draft, fino ad avanzare timidamente una propria candidatura al premio (anche se non in prima persona: "Non è che mi importi davvero, in fondo – dice infatti il diretto intressato – perché l'unica cosa che conta è che la squadra faccia i playoff". Se li farà (ed è probabile che accada) sarà merito anche del suo contributo, della sua sorprendente abilità di tenere in mano una squadra NBA già al primo anno, della sua percentuale oltre il 40% da tre punti su due tentativi e mezzo di media a sera (primo tra i rookie, 24° nell'intera lega), di medie oltre i 10 punti e 4 assist a sera in poco più di 26 minuti in campo (alternandosi tra quintetto e panchina) e di un win share di 2.9, anche qui il migliore tra tutti i rookie. Anche dalle statistiche avanzate di squadra emerge la sua importanza per i giovani Bucks, che migliorano con lui in campo rispetto a quando è fuori, sia per plus/minus (da -2.1 a +1.7) che per net rating (da -1.3 +2.3), esattamente l'opposto di quello che succede quando è Matthew Dellavedova a guidare il quintetto di Milwaukee. A sostenere la sua candidatura ci ha provato più volte il suo allenatore, Jason Kidd: "Forse sono di parte ma per me se lo meriterebbe: è uno studente del gioco, è sempre sotto controllo, gioca i due lati del campo, non ha paura contro nessuno. Malcolm è un vincente".  

Perché no

Difficile però che alla fine Brogdon abbia reali possiblità di mettere le mani sul premio, per i motivi che già valgono in parte per Dario Saric: le cifre, se valutate con criteri assoluti, appaiono semplicemente insufficienti. La sua media punti sarebbe la più bassa di sempre per un rookie dell'anno (infrangendo il record di 10.7 punti stabilito da Monk Moineke al primo anno di assegnazione del premio, nel 1952-53) e lo stesso minutaggio (spesso in uscita dalla panchina) non sarebbe diverso da quello di Embiid, dato valutato negativamente nei confronti del centro dei Sixers. 

DON'T LOOK NOW...

Jaylen Brown

Nessuno dubitava delle sue doti atletiche e degli istinti per la pallacanestro del prodotto di California, ma si era convinti che la terza scelta assoluta dello scorso Draft necessitasse di una o due annate di transizione prima di avere un proprio impatto nella lega. Da dopo l'All-Star break, invece, Brown ha già dimostrato di poter meritarsi un posto nella rotazione di coach Stevens, collezionando 8.7 punti e 3.5 rimbalzi in 21 minuti di utilizzo, con percentuali al tiro davvero notevoli (il 50% dal campo, quasi il 38% dall'arco, uno dei punti deboli più temuti del suo gioco). Per lo stile della pallacanestro attuale, poi, il corpo e le doti fisiche-atletiche di Brown sembrano disegnate apposta: quasi inarrestabile in transizione e in campo aperto, le sue doti di salto ne fanno un asset anche a rimbalzo, e pur a soli 20 anni ha retto benissimo la responsabilità di occupare un posto in quintetto in una squadra di vertice come Boston nelle 20 occasioni in cui coach Stevens lo ha inserito tra i titolari (10 punti di media in 25 minuti, il 46% dal campo e oltre i 40% da tre, con più di 4 rimbalzi di media).

Marquese Chriss

Atleticamente lo si conosceva ("Volevamo chiudere il workout dopo soli 10 minuti: non avevamo mai visto nulla di simile", dicono in casa Suns) per cui sorprende fino a un certo punto che pià di un terzo dei canestri di Chriss sia frutto di schiacciate (con una predilezione per quelle in alley oop, 36 su 97 al momento). Quello che impressiona maggiormente è invece l'attitudine dimostrata e i miglioramenti già messi in campo nella seconda parte di stagione rispetto a inizio anno. Coach Watson racconta di come il ragazzo passi gran parte dei voli di squadra nel retro dell'aereo insieme al coaching staff, a rivedere video e strategie, e questa volontà di migliorare si è espressa poi sul campo: dalla pausa dell'All-Star Game, a fronte di un minutaggio importante (quasi 27 minuti a sera), Chriss ha risposto con 12.4 punti, 6 rimbalzi e una stoppata e mezza di media, il 50% dal campo e oltre il 35% da tre punti (su oltre 3 tentativi a serata, ed è pur sempre un 2.08...). Il potenziale è tutto da vedere, tanto che a Phoenix se lo immaginano capace un domani di giocare da portatore di palla il pick and roll in attacco e contemporaneamente di reggere difensivamente in post su ali forti e centri avversari. Versatilità is the name of the game, come dicono negli Stati Uniti, e Marquese Chriss sembra avere tutto per diventare un gran giocatore se continuerà a svilupparsi.