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È Mike D’Antoni l’allenatore dell’anno nella NBA?

NBA

Mauro Bevacqua

Se l'allenatore degli Houston Rockets sembra il favorito al premio di fine anno, non mancano i candidati al titolo dicoach of the year 2017 – da Brad Stevens a Erik Spoelstra, passando per Scott Brooks e il solito Gregg Popovich. Ecco i motivi delle loro candidature

A sentire il miglior allenatore NBA in carica (avendo vinto il premio al termine della scorsa stagione, chiusa guidando i suoi Warriors a 73 vittorie), non ci sono molti dubbi su chi sia destinata a succedergli per il 2016-17: “Penso che la filosofia di gioco di Mike [D’Antoni] si sposi perfettamente con il suo roster”, l’opinione di Steve Kerr: “Ha dato ai suoi giocatori grande fiducia e non c’è dubbio che stiano avendo un anno fantastico. La mia previsione è che il premio lo finirà per vincere lui: se l’è meritato”. Un’opinione competente, che gode di parecchi consensi, ma che non esaurisce così facilmente un dibattito molto più vario e complesso, quello su quale allenatore meriti di ricevere l’annuale premio assegnato dalla lega. Complesso perché – come accade anche relativamente ad altri riconoscimenti, da quello di MVP a quello destinato al giocatore più migliorato – tanti e variegati sono i criteri che sembrano guidare la giuria nell’assegnazione del premio, anche se l’ultimo decennio ha fatto emergere un trend abbastanza consolidato. La storia degli ultimi anni, infatti, tende a raccontare che a ricevere il premio a fine stagione sia l’allenatore la cui squadra – in una fascia di classifica medio-alta, che parte da una previsione minima di 45 vittorie e può arrivare fino a 59/60 – ottiene i migliori risultati rispetto alle previsioni prestagionali (unica eccezione la vittoria di Gregg Popovich nel 2013-14). Un rapido sguardo alle previsioni di over/under di inizio annata può quindi dare una prima idea dei nomi in corsa per quest’anno: Mike D’Antoni (over/under dei Rockets a 44, oggi titolari di 54 vittorie), Scott Brooks (42.5 e 48 successi già ottenuti), Erik Spoelstra (34.5, ma già 39 vittorie) e Gregg Popovich (57.5 la previsione per i suoi Spurs, a 61-19 a due gare dal termine). A questi quattro nomi vale la pena aggiungere quello di Brad Stevens, sulla panchina dell’Est all’All-Star Game, con i suoi in corsa fino all’ultimo per la prima testa di serie a Est; quello di Steve Kerr, comunque alla guida della squadra con il miglior record di lega; e quello di Quin Snyder, capace di riportare i Jazz ai playoff per la prima volta dal 2012. Ecco una breve analisi delle motivazioni che ognuno di questi coach potrebbe avanzare a giustificazione della propria candidatura. 

Mike D’Antoni, Houston Rockets

Reduci da un’annata chiusa al 50% (41-41), i Rockets in estate hanno visto la partenza di una (presunta) superstar come Dwight Howard, e l’arrivo in panchina di un allenatore da più parti considerato finito dopo le avventure perdenti sulle panchine di Knicks e Lakers, sicuramente più considerato per il suo approccio offensivo che difensivo. Houston, già buona in attacco (ottava per offensive rating), vedeva proprio nella sua debolezza difensiva (il 21 defensive rating NBA) il proprio punto debole, per cui la scelta dell’ex allenatore di Phoenix non appariva congeniale ai bisogni della franchigia. Sbagliato. Pur riuscendo a migliorare il rendimento nella metà campo dietro (15°) D’Antoni ha costruito un attacco fenomenale attorno a James Harden, secondo per efficienza offensiva solo a quello di Golden State e capace di viaggiare a 115.5 punti di media, un dato migliore delle tre edizioni dei Suns allenati da D’Antoni capaci di guidare la lega in questa speciale classifica. Affidando a James Harden la leadership tecnica indiscussa della squadra, e dandogli totale carta bianca nella fase di creazione oltre che di realizzazione del gioco, D’Antoni ha trasformato il suo n°13 in un potenziale MVP, portandolo a migliorare la sua media punti (29.3 al momento, contro i 29 dello scorso anno, massimo dato di carriera) e facendone contemporaneamente il leader NBA per assist.  Attorno ad Harden, un roster disegnato apposta per lui, con tiratori sul perimetro cui D’Antoni ha dato nuova fiducia, rigenerando carriere che sembravano in declino (Eric Gordon e Ryan Anderson su tutti), e un pacchetto di lunghi senza grande nome ma dalle qualità perfette per interagire nei giochi a due con “il Barba” (da Clint Capela a Nene, fino a Montrezl Harrell, tutti dotati di buone doti atletiche e della capacità di essere pericolosi da roller nei giochi a due o con tagli decisi al ferro). “Dai giocatori alla dirigenza fino alla proprietà, tutti qui a Houston volevano che la squadra giocasse quel tipo di pallacanestro che io voglio allenare”, le parole del diretto interessato. Che suonano come la ricetta perfetta per il secondo premio di allenatore dell’anno (dopo quello del 2005 vinto a capo dei Suns) del baffo ex Olimpia Milano. 

Erik Spoelstra, Miami Heat

Bene che vada Miami può chiudere l’anno con un record al 50% (41-41), da considerarsi già un miracolo dopo una partenza da 11 vittorie e 30 sconfitte che a metà gennaio faceva apparire impossibile anche solo una speranza di playoff. Accesso o meno alla postseason (l’ultimo allenatore a vincere il premio di coach of the year senza partecipare ai playoff è stato Doc Rivers alla guida di Orlando nel 1999-2000), il capolavoro di Erik Spoelstra — due anni dopo l’addio di LeBron James, dovendo fare a meno per la prima volta anche di Dwyane Wade (ceduto a Chicago) e Chris Bosh (fermato da guai fisici) — è stato quello di riuscire a costruire comunque un gruppo coeso che non può contare su nemmeno un All-Star (nessun altro allenatore tra quelli qui analizzati può dire lo stesso). Le “stelle” — virgolette d’obbligo — in casa Heat si chiamano Goran Dragic e Hassan Whiteside, non certo nomi roboanti, ma è con il resto del roster (e i vari James Johnson, Dion Waiters, Tyler Johnson, Wayne Ellington, Rodney McGruder etc.) che Spoelstra ha costruito il suo piccolo capolavoro, ancora più notevole se si ricorda anche l’assenza per oltre 60 partite di Justise Winslow. 

Scott Brooks, Washington Wizards

I miglioramenti messi in mostra da Washington al primo anno della cura Brooks sono sotto gli occhi di tutti. Chiusa la passata stagione con un record in parità (41-41) e senza disputare i playoff, Washington è ora a un passo dalle 50 vittorie stagionali (miglior risultato di franchigia dalla metà degli anni ’70), grazie alla maturazione definitiva del proprio leader John Wall, alla miglior stagione della carriera di Bradley Beal (23 punti a sera con percentuali in crescita) e di Otto Porter (vicino al 52% dal campo e al 44% da tre) e alla crescita come specialista difensivo di un progetto come Kelly Oubre Jr.. Dopo aver vinto solo 6 delle prime 18 partite (normale periodo di ambientamento per il nuovo coach?) il destino di Washington sembrava segnato, ma Brooks è riuscito a trovare la quadra a un roster finalmente in grado di realizzare quelle aspettative a lungo coltivate inutilmente. 

Gregg Popovich, San Antonio Spurs

Si deve iniziare, sempre, dal vecchio ritornello: “…e hanno tutti un anno in più sulla carta d’identità”. Vale per Manu Ginobili, vale per Tony Parker, vale anche per Pau Gasol ma non vale più per Tim Duncan, a cui coach Popovich ha dovuto rinunciare per la prima volta in carriera. Eppure gli Spurs restano una squadra da vertice NBA, sfruttando sicuramente l’esplosione di Kawhi Leonard a livelli da MVP della lega e affidandosi alla produzione costante di un 5 volte All-Star come LaMarcus Aldridge, ma dovendo inserire — affidando loro ruoli importanti — anche giocatori del tutto unproved a questo livello come Dewayne Dedmond e Jonathon Simmons. Il sistema, ancora una volta, sembra più importante dei singoli che vanno a eseguirlo e quel sistema ha il marchio di fabbrico di Gregg Popovich, la cui squadra anche quest’anno guida la NBA per efficienza difensiva (100.8 punti subiti per 100 possessi).

Brad Stevens, Boston Celtics

Costruire un attacco attorno ai 175 centimetri del proprio playmaker Isaiah Thomas, mettendolo contemporaneamente nella posizione di poter esprimersi al massimo (fino a essere menzionato nelle conversazioni per il premio di MVP NBA); dare un’identità di squadra chiara e armoniosa; resistere a una serie di infortuni sopra la media (oltre allo stesso Thomas, Avery Bradley, Al Horford e Jae Crowder hanno dovuto saltare diverse partite); compensare il rendimento a dire il vero un po’ sotto le aspettative del più pregiato acquisto estivo, il 4 volte All-Star Al Horford. Al quarto anno sulla panchina di Boston Brad Stevens è stato capace di fare tutto questo, guidando i suoi Celtics a competere con i Cavs per il primo posto a Est, mettendo in mostra una pallacanestro che — a fronte di un talento nel roster tutto sommato limitato — si poggia sul collettivo e sulla capacità di produrre risultati in maniera corale (solo i Golden State Warriors, ad esempio, contano una percentuale di assist superiore a quella dei biancoverdi). 

Quin Snyder, Utah Jazz

Mancano ai playoff dal 2012 e ora ci tornano al termine di una stagione da 50 vittorie dopo tre annate perdenti. Con le idee chiare già dal mercato estivo (con le acquisizioni di George Hill, Joe Johnson e Boris Diaw) la dirigenza e Snyder hanno costruito una squadra solida come i suoi leader, quel Gordon Hayward finalmente All-Star e un Rudy Gobert meritevole della candidatura a difensore dell’anno. Non saranno clienti facili per i Clippers al primo turno – e non lo saranno neppure nel futuro più prossimo per qualsiasi avversario a Ovest: i Jazz sono tornati.   

Steve Kerr, Golden State Warriors

Nessun allenatore ha mai vinto il premio per due anni di fila, e già questo sembra congiurare contro il biondo allenatore degli Warriors. Reduce da una stagione da record chiusa con 73 vittorie, ha dovuto gestire l’inserimento di Kevin Durant all’interno di un nucleo già rodato, dovendo far fronte allo stesso tempo a una serie di cessioni necessarie per sopportare il contratto dell’ex stella dei Thunder. Per la terza volta consecutiva i suoi Warriors chiudono con almeno 65 vittorie, traguardo mai raggiunto da nessuno nella storia della NBA, e anche quest’anno è loro il miglior record di lega. Se il potere non logora chi ce l’ha, è però vero che dall’esterno si finisce spesso per darlo per scontato: ecco perché Kerr potrebbe non godere di così tanti favori nonostante Golden State sia al primo posto di una serie quasi infinita di indicatori statistici avanzati (dall’offensive rating alla percentuale di assist fino al net rating, ma anche la miglior percentuale reale al tiro e la paggiore concessa agli avversari).