Nel 1979 gli Washington Bullets vinsero la decisiva sfida contro i San Antonio Spurs, qualificandosi così per le Finals NBA. Una partita controversa, l’ultima gara-7 giocata della squadra della capitale. Una storia che merita di essere raccontata
Jimmy Carter era il presidente degli Stati Uniti, in Italia avevamo Sandro Pertini al Quirinale e soprattutto gli Washington (allora) Bullets giocavano l’ ultima gara-7 della loro storia. Dopo il successo di questa notte contro Boston infatti, i capitolini ritorneranno a giocare una sfida di questa importanza a 38 anni di distanza da quella vittoria controversa conquistata in finale di conference contro i San Antonio Spurs. Una partita dai continui richiami con il presente e così particolare che merita di essere raccontata. Era la Washington di coach Dick Motta, campione NBA in carica che naufragò poco dopo nel rematch delle Finals dell’anno precedente contro i Seattle Supersonics. Per arrivare a giocarsi nuovamente le loro chances nell’ultima atto della stagione, i Bullets dovettero faticare più del previsto contro gli Spurs (che all’epoca rientravano nella Eastern Conference), vincitori in tre dei primi quattro incroci di quella serie. L’allenatore di Washington aveva annunciato al San Antonio Express che “l’opera non è finita fino a quando la cicciona non ha cantato” e il trio composto da Bobby Dandridge, Elvin Hayes e Greg Ballard fece di tutto nelle due sfide successive per dar seguito a quelle parole, costringendo i texani a doversi giocare il passaggio del turno in gara-7 al Capital Center, la casa dei Bullets dal 1973 al 1997.
Una partita decisa all’ultimo tiro
La sfida decisiva tra le prime due classificate in regular season dopo il primo tempo sembrava senza storia, con gli Spurs trascinati oltre la doppia cifra di vantaggio da un ispiratissimo George Gervin da 42 punti, 24 dei quali arrivati durante la controversa seconda parte di gara che a distanza di decenni fa ancora discutere i tifosi nero-argento. I più anziani di loro infatti ricordano ancora John Vanak e Paul Mihalik, gli arbitri della gara che negli ultimi tre minuti abbondanti dell’incontro fischiarono nove volte, sette delle quali “a favore” dei padroni di casa, nel pieno di una rimonta conclusa con un parziale da 10-2 negli ultimi due minuti di gioco dai capitolini. Bobby Dandridge fu il protagonista di quella sfida: 37 punti con tanto di canestro della vittoria a otto secondi dal termine piazzato sulla testa di tre difensori avversari. “Il mio scopo era quello di tirare lasciando sul cronometro non più di cinque secondi. Tom Handerson dalla panchina dove darmi delle indicazioni facendo il conto alla rovescia ad alta voce, ma la folla urlava così forte che io non sono riuscito a sentirlo. A quel punto appena ho avuto un po’ di spazio, ho preso il tiro e realizzato il canestro con più di otto secondi da giocare”. Il tempo necessario per respingere al mittente in difesa con una stoppata l’ultimo tentativo dei texani. Alla fine è 107-105 per Washington, la terza squadra a rimontare nella storia NBA da uno svantaggio di 1-3 (sì, un tormentone ascoltato più volte durante gli scorsi playoff).
Gli arbitri, le multe e l’interruttore schiacciato
Gli Spurs però non si rammaricarono del 4/14 dal campo con cui conclusero la sfida, ma dei fischi che a detta di coach Doug Moe condannarono i texani: “Gli arbitri ce l’hanno rubata. Poche storie, non hanno fischiato nulla a nostro favore”, furono soltanto alcune delle frasi pronunciate ai microfono dei cronisti nel post partita. Parole che costarono care all’allenatore, multato per 5.000 dollari che gli ascoltatori di KTSA, la radio che trasmetteva le partite a San Antonio, decisero di pagare al posto suo facendo una colletta (sì, proprio come successo a coach Fizdale con gli Spurs passati nelle scorse settimane sul banco degli imputati). Ma l’episodio più controverso resta lo spegnimento improvviso delle luci all’interno dell’arena durante il terzo quarto, nel momento in cui San Antonio era in pieno controllo del match e sembrava ormai essere lanciata verso quelle Finals che riusciranno a conquistare per la prima volta soltanto 20 anni dopo. All’epoca il general manager della squadra della capitale era Bob Ferry, padre di quel Danny che anni dopo trascorrerà anni importanti della sua carriera proprio all’ombra dell’Alamo. Una volta, incrociando George Gervin nei corridoi, ha scherzato sull’episodio, raccontando di essere stato lui a premere l’interruttore quella sera che ha costretto gli arbitri a sospendere il match per più di 20 minuti. Una dichiarazione che una volta trapelata è stata presa sul serio dai media, costringendo l’ex general manager degli Atlanta Hawks a precisare: “Non sono stato io e anche qualora mio padre avesse avuto qualcosa a che fare con quello che è successo, di certo non lo avrebbe raccontato al suo figliolo 12enne”. Cambiano i presidenti quindi, ma non le polemiche. E per fortuna neanche il piacere di goderci una gara-7. Finalmente, diranno a Washington.