Aconcagua, un rifugio per Elena sulla cima maledetta

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EMILIANO GUANELLA c'era: l'8 gennaio 2009 la tragedia. Quattro alpinisti italiani e la guida che doveva salvarli si perdono a oltre 6000 metri di quota. Due anni dopo, il rifugio più alto del mondo apre nel nome della Senin. GUARDA LE FOTO E I VIDEO

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Le foto: la tragica morte di Federico Campanini

di Emiliano Guanella
(da Buenos Aires)

Hanno trasportato sulle spalle i pannelli d’acciaio per celle frigorifere, uno a uno, salendo la montagna, fino a 6.000 metri. Poi, resistendo a temperature di 20 gradi sottozero, hanno assemblato pazientemente tutti i pezzi, il pavimento di legno rivestito con materiale isolante, le pareti, il tetto, i cavi pesanti per mantenere la struttura solida e resistente ai venti fortissimi che colpiscono la Plaza Colera, punto d’arrivo dei due rifugi d’ascesa al monte Aconcagua, la vetta d’America con i suoi 6.982 metri.

Il rifugio costruito è uno dei più alti al mondo e porta il nome di Elena Senin, l’alpinista italiana morta nel gennaio del 2009 mentre stava scendendo dalla cima assieme a tre compagni e alla guida argentina. Elena, originaria di Ivrea, amava la montagna e aveva deciso assieme a Mirco Affasio, Matteo Refrigerato, di Cairo Montenotte nel Savonese, e Marina Attanasio, milanese, di scalare la vetta più alta delle Cordigliera delle Ande. Una spedizione preparata nei minimi dettagli, il viaggio in Argentina prima di Natale, il periodo di acclimatazione, la risalita che inizia proprio il giorno di Capodanno.

Con loro anche Antonella Targa, che si ferma però a metà percorso perché non si sente bene. Avevano messo sotto contratto una guida esperta, Federico Campanini, originario di Mendoza, la città che sta ai piedi della grande montagna. Passano uno a uno tutte le tappe dell’ascesa, punti conosciuti dagli appassionati di montagna, il nido dei condor a 5.400 metri, il rifugio Libertad a 5.900 e poi la Cuesta del Vento a 6.300 metri, da dove si scorge la vetta.

L’Aconcagua è una meta particolare perché si può salire per un sentiero fino alla fine, senza bisogno di scalare. A quota 6.300 decidono di abbandonare lo zaino per essere più veloci. Vogliono raggiungere la cima e scendere prima che faccia buio. Una tormenta fortissima li sorprende, rallenta il loro passo, riescono finalmente a raggiungere la cima percorrendo la Gran Canaleta, in parte ghiacciata. Non si vede quasi nulla, al momento di scendere imboccano la strada sbagliata, per il Ghiacciaio dei Polacchi, una lunga lastra di ghiaccio che scende a valle per mille metri, dove sono state scritte le imprese più eroiche e le tragedie più grandi delle Ande.



Elena scivola, Campanini lancia l’allarme via radio, cerca di raggiungerla ma entra in ipotermia, non riesce più ad andare avanti. Marco, Matteo e Marina non possono fare niente per salvare la loro amica, capiscono che non possono continuare, non si vede nulla e non conoscono la strada, decidono di fermarsi e bivaccare, a 6.700 metri senza tenda e senza sacco a pelo. La tormenta è fitta, la notte si avvicina, la morte è ad un passo. Tutte le guide i soccorsi vengono mobilitati.

La notizia arriva a Buenos Aires, mi mobilito immediatamente per conto di Sky Sport, volo a Mendoza mentre ottanta persone mettono in piedi la più grande operazione di soccorso mai vista sull’Aconcagua. Una lotta contro il tempo, le guide salgono nell’oscurità verso la cima mettendo a rischio la loro vita. In questa storia di eroi una menzione particolare va al pilota dell’elicottero Horacio Freschi, che trasporta fin dove può i soccorritori e poi vola da solo, rischiando moltissimo, oltre i 7.000 metri riuscendo a scorgere il luogo esatto dove si trovano i tre sopravvissuti. Quando le guide li raggiungono si rendono conto che devono portarli giù più in fretta possibile. Se li caricano in spalla, ma Campanini non ce la fa a camminare, è incosciente, è impossibile continuare a meno di rischiare di rimanere bloccati tutti quanti.

Il capo della spedizione resta con lui, a vegliarlo: Federico muore a pochi metri dalla vetta che più amava (IL VIDEO) . I tre italiani vengono sistemati per qualche ora nel rifugio Berlino, hanno mani e piedi congelati, sono disidratati, rischiano di perdere gli arti. Ma è un miracolo che siano ancora vivi, sono riusciti a resistere per una notte intera in condizioni disumane. Io arrivo ad Horcones, il campo base a 3.000 metri, proprio quando li stanno portando giù in elicottero. Filmiamo tutto con discrezione, la paura, le lacrime, lo shock.

Il giorno dopo in ospedale a Mendoza c’è la stampa locale. Mirco, Matteo e Marina ci concedono un’intervista in esclusiva dal letto d’ospedale, vogliono spiegare quanto è successo, ma i ricordi sono ancora confusi. Pensano soprattutto ad Elena, la loro grande amica, per la quale non hanno potuto fare nulla. Un vuoto che si porteranno appresso assieme ai mille ricordi di un gruppo umano fantastico, appassionato della montagna, delle spedizioni, dell’impresa che si organizza, si studia, si sogna. Non sono degli spericolati, l’alpinismo non è sport estremo, ma il rischio esiste perché il clima in alta quota può cambiare quando uno meno se lo aspetta.

L’Aconcagua è una cima bellissima, ma ogni anno si registrano degli incidenti, alcuni dei quali mortali, ed è inevitabile che così sia. Più della metà delle spedizioni non arrivano alla vetta, le guide alpine e i soccorritori lavorano senza sosta da novembre a marzo, la stagione delle risalite. Il rifugio appena costruito, per volontà della famiglia e con l’aiuto di istituzioni italiane e argentine, porta il nome di Elena e il suo sorriso, il suo amore indissolubile per le montagne, da Ivrea al mondo intero. È un ricordo tangibile e allo stesso tempo una struttura utile, che servirà a molti altri alpinisti impegnati nella risalita e a chi avrà bisogno di soccorsi in altissima quota. Lassù, a 6.000 metri, dove volano i condor e i sogni di chi rimarrà per sempre legato a quella cima meravigliosa, la vetta d’America, che domina incontrastata su tutte le Ande.