Un argento che vale come una Viktoryia

C’è una medaglia d’argento, ai Mondiali di canoa e paracanoa di Milano, che vale come una vittoria. Meglio, una Viktoryia. Questo il nome di battesimo di una ragazza, classe 1993, che di cognomi ne ha due e che, all’Idroscalo, ha tagliato il traguardo al secondo posto nella gara VL1 200 metri, categoria riservata a chi può usare gli arti superiori per guidare la canoa. Arriva al momento delle interviste con un sorriso che contagia: “Facciamo due chiacchiere da amiche, vero?”. E così parte il racconto di una storia che più che una confessione sembra la trama di un romanzo. Per cominciare, bisogna andare indietro al 1986, quando Viktoryia ancora non era nata. L’episodio è quello che viene ricordato con il nome di una cittadina ucraina vicina al confine con la Bielorussia: Černobyl, dove avvenne un'esplosione all’interno del reattore 4 nella centrale nucleare. Il più grave incidente nella storia: oltre ai tremendi danni che produsse in quella notte dell’86, continua, ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni, a creare problemi, tra le altre cose, alla tiroide di bambini e adolescenti. Tra quei ragazzi colpiti da disagi c’è anche lei, Viktoryia, che insieme al fratello Dimitri, nelle estati dei primi anni 2000, partecipa al progetto Černobyl proposto da ‘Cittadini del mondo’, un’associazione sarda che offre ospitalità a giovani bielorussi colpiti dal disastro, per dare loro un'esperienza di ospitalità in Italia, soprattutto durante le vacanze estive, con lo scopo di mitigare gli effetti delle radiazioni sulla loro salute. È il 27 agosto del 2005 quando uno di questi periodi volge al termine e i due fratelli bielorussi tornano a casa dopo il soggiorno sardo. A prenderli all’aeroporto, in una notte buia e piovosa, vanno i genitori. Durante il tragitto verso casa, però, avviene l’episodio che cambierà per sempre la sorte della all’epoca bambina e della sua famiglia. Un incidente stradale che toglie la vita a papà Shablova e porta Viktoryia a dover lottare per sopravvivere. “Io sono rimasta in coma per un po’ -racconta Viktoryia- i medici non davano molta speranza”. Il percorso è stato lungo e complicato e dopo il risveglio la giovane si è ritrovata a non poter più usare le gambe: “In Bielorussia mi hanno detto che non potevano più aiutarmi, con mamma siamo ripartite alla volta della Sardegna, grazie all’associazione e ad alcune famiglie che mi avevano ospitato nelle estati precedenti. Lì abbiamo continuato le cure”. Ed è proprio sull’isola che si è aperto un nuovo capitolo del romanzo di Viki. Nuova vita La scuola, lo sport e una famiglia che trova una nuova dimensione. “Sono rimasta in Italia, siamo rimasti in Italia. Viviamo qui, dove mia madre ha trovato un nuovo amore e si è risposata: oltre a Shablova, il mio cognome sardo è Pistis, quello del marito di mamma”. Anche in Bielorussia, prima dell’incidente, Viki praticava il nuoto che ha continuato a fare anche in Italia, alternandolo con il basket in carrozzina. Senza dimenticare gli studi con una laurea conseguita in ingegneria farmaceutica. Una vita intensa, con tanti impegni. Ma quando entra in scena la canoa? “Tre anni fa, quando il mio allenatore Marco Frau -racconta- me l’ha proposta. Mi spaventava un po’, era una cosa nuova che non conoscevo. Ma quando ho provato il primo allenamento è stato bellissimo, sono riuscita subito ad andare. E mi ha emozionato. Solo dopo pochi giorni ho vinto i campionati italiani. Dopo qualche mese, ho vinto gli Europei e poi i Mondiali sia nel 2023, sia nel 2024”. Con tanto di complimenti di Luca Pancalli. Con il solito sorriso che travolge, della gara all’Idroscalo racconta: “Sono soddisfatta, contenta, felice. Puntavo sull’oro. Volevo vincere. Mi sono preparata intensamente per farlo. Ma è andata così, le avversarie erano molto forti. La medaglia d’argento è comunque importantissima. Anche perché mi sono stati tutti vicini: il mio allenatore Marco Frau, il ct, la squadra”. E la famiglia, con la quale i festeggiamenti dopo la premiazione sono stati a base di promesse di scorpacciate di dolci. Quali? Tutti, purché sardi.

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Federica Lodi