La settima ora di Bowen e Burke, il più lungo incontro della storia del pugilato

Nel quinto dei dodici libri del suo poema epico ’Aeneis’, a noi noto come ‘L’Eneide’, Publio Virgilio Marone tratteggia ai versi 363-484 una testimonianza molto ricca e particolareggiata del pugilato, uno sport che a Roma - così come pure presso gli Etruschi - fu molto popolare , ma - di contro - assai meno apprezzato in Grecia. Fu proprio il popolo dell’Etruria, poi assorbito dai Romani, a insegnare all’Impero la tecnica del combattimento, esibita anche in quello che poi sarebbe più in là divenuto il Circo Massimo - ove sorgeva un ampio spiazzo nella valle Murcia fra i colli Palatino ed Aventino - nei giochi celebrativi della vittoria sui Latini indetti da Tarquinio Prisco. Momenti ludici e sportivi nei quali presentare ‘equi pugilesque ex Etruria maxime acciti’, così come ricorda Tito Livio nella sua ‘Ab Urbe condita I” . Tale era la passione per questo sport, che si potevano vedere per le strade dei semplici popolani battersi in incontri improvvisati nei quali, per forza di cose, si combatteva a mani nude. A differenza degli atleti riconosciuti che invece indossavano già all’epoca dei caesti o degli himantes . Il pugilato sopravvisse così per secoli, con le mani protette da bendaggi o con guanti di diversa foggia e misura, dai quali nel tempo venne rimossa la massa metallica che anticamente lo aveva reso molto simile a una contesa gladiatoria. Ma dovette passare del tempo, molto tempo, prima di arrivare a una effettiva codificazione delle regole di base che, almeno agli inizi, rimasero quelle di infliggere danni all’avversario combattendo finché uno dei due pugili non avesse più forze. Questo tipo di boxe - assai lontano dalla ‘noble art’ aristocratica - era essenzialmente fondato su una certa brutalità. Non di rado le ferite che i pugili si procuravano erano davvero gravi e non era raro che un incontro terminasse dopo qualche ora con la morte di uno dei due boxeur. Fino all’inizio del XX secolo, perciò, non si è mai parlato di introdurre norme che limitassero la violenza del pugilato o la durata degli incontri, anche per la sicurezza dei pugili. E - come ovvio - la boxe era diventata uno sport duro, perfetto per chi volesse dimostrare di essere forte o ‘particolarmente temibile’. Negli anni erano progressivamente state abolite testate, calci, ginocchiate, ma lo spirito ‘selvaggio’ era rimasto pressoché quello dei Giochi Olimpici del 688 a.C. in Grecia. Il primo a provare ad abbozzare un ‘codice’ fu il IX Marchese di Queensberry nel 1867, disciplinando anche i premi in denaro. John Sholto Douglas, questo il suo nome, nobiluomo scozzese ateo nato a Firenze, educato al Royal Naval College di Greenwich di Londra, padre del Visconte Francis , di Lord Percy, di quel Lord Alfred ‘Bosie’ suo terzogenito divenuto amante di Oscar Wilde e di altri due figli , era un uomo piuttosto rigido e brutale. Il 24 aprile 1866 contribuì a fondare il primo organismo nazionale di governo per l’atletica leggera al mondo. Ma amava molto anche il pugilato e trovava che fosse necessario dargli una disciplina per renderlo più ‘umano e accessibile’ . Per questo stilò un regolamento in dodici punti che intanto sospendesse la lotta a mani nude e poi normasse la boxe. Questo regolamento prevedeva e prevede ancora un incontro di boxe in un ring di circa 24 piedi, il divieto di abbracci e prese da wrestling, la durata di tre minuti per round e un minuto di pausa fra un round e l’altro. E poi che chi cade, per debolezza o altro, si rialzi senza assistenza entro dieci secondi mentre l’avversario torna al proprio angolo. Una volta tornato in piedi l’incontro potrà riprendere fino alla scadenza dei tre minuti. Diversamente, superato lo scratch dei 10 secondi l'arbitro darà il suo verdetto a favore dell'altro pugile. La lungimiranza di Douglas aveva previsto che un uomo appeso alle corde in uno stato di impotenza, con le dita dei piedi sollevate sarebbe stato considerato come a terra. Beninteso: nessun secondo o altra persona è ammessa sul ring durante i round. Ma se la competizione viene interrotta da qualsiasi interferenza inevitabile, l'arbitro deve indicare il prima possibile l'ora e il luogo ove terminare la competizione a meno che i due angoli non concordino il pareggio. I guantoni devono essere da boxe di dimensioni adeguate, della migliore qualità e nuovi. Se un guantone scoppia o si sfila, deve essere sostituito a soddisfazione dell'arbitro. Un uomo in ginocchio è considerato a terra e se colpito ha diritto alle puntate. E per scongiurare furbate, nessuna scarpa o stivali con molle sono consentiti. La dodicesima regola è una sorta di formula di accettazione dei compensi: la competizione in tutti gli altri aspetti deve seguire le regole riviste del London Prize Ring, che norma i premi in denaro. Le regole di Queensberry vedono la luce, come detto, nel 1867. Ma non è ancora chiaro il limite dei round. E per almeno un’altra trentina di anni non sarà chiaro quanto debba durare un incontro. A New Orleans in quel 6 aprile del 1893, il signor John Duffy - arbitro ufficiale di pugilato è ben deciso a fare rispettare le regole della ‘vecchia boxe’, quella a oltranza, normate dai round delle regole di Queensberry. Chiama a sé il pugile locale Andy Bowen, stella della Louisiana, 12 vittorie e 2 pareggi nei suoi 14 incontri precedenti, e il monumentale Jack Burke da Chicago, Illinois. Sono due pesi leggeri. Bowen ha poco meno di ventisei anni, due in più di Burke. Il suo curriculum è di tutto rispetto, combatte da sei anni e nel 1890 ha difeso con successo il titolo contro l’inglese Jimmy Carroll in quello stesso Olympic Club dove nel 1892 James J. Corbett sconfiggerà John L. Sullivan e ora si ritrova di fronte un ‘Illinoisan’ più alto di lui di due centimetri e pieno di rabbia. Bowen e Burke si avvicinano a John Duffy al centro del ring. Intorno tanto pubblico vociante, un bene visto che parte dell’incasso è destinata alla beneficenza. L’uomo alla cassa parla di tremila biglietti venduti, il poliziotto accanto a lui sorride orgoglioso e ricorda che sarà una serata di grande sport e basta, anche perché è vietata la vendita di alcoolici in sala. In palio c’è il titolo dei pesi leggeri della Louisiana. Bowen vuole conquistarlo perché meno di un mese dopo sarà il suo compleanno e lo festeggerà anche con gli amici e la famiglia. Il suo metro e sessantotto per sessanta chili è un fascio di muscoli e nervi. Burke da tempo vive a Galveston, per questo lo chiamano ‘Texas’. Secondo alcuni all’anagrafe a Chicago pare ancora registrato come George Campbell. Lui non conferma né smentisce. Pesa sessantuno chili. Burke - a differenza di Bowen, pugile a tutto tondo - allena ricchi dell’high class che vogliono restare in forma. Da qualche tempo gira l’America insieme alla moglie, tale Rose Postlewaite, artista di vaudeville, ma pare che il loro matrimonio sia già in crisi da un po' di tempo. John Duffy guarda negli occhi i due avversari, poi con voce ferma dice loro: “Allora, come d’accordo. Niente limite ufficiale al numero di round. Massima lealtà, vince chi resta in piedi, oppure…”. Ecco, da qui in poi le cronache non registrano né il seguito della frase né eventuali risposte dei due pugili. Solo il boato degli spettatori e il digrignare di denti di Bowen e Burke, ai quali è chiaro sin da subito che il combattimento sarà una prova di pura resistenza e forza di volontà. Il tempo di tornare all’angolo e un colpo di gong dà il via al match. Bowen incomincia subito a picchiare duro, offre l’impressione di voler comandare l’incontro e di non voler andare molto per le lunghe. Pressa Burke. Ma ‘Texas’ ha anche un altro soprannome, ‘Iron’, e non per caso. Burke fa sfogare Bowen e incassa colpi fortissimi, ma non retrocede di un centimetro. Delle regole del Marchese di Queensberry sono in vigore la distanza di tre minuti per round e il minuto di intervallo fra un round e l’altro. Ma non c’è un fine match prefissato. La fine sarà dichiarata solo quando uno dei due rimarrà al tappeto e non si rialzerà prima del “dieci e out”. Per i primi ventiquattro round i due pugili sembrano equivalersi. Al venticinquesimo Bowen costringe Burke a subire la sua iniziativa incessante e Burke dà l’impressione di cedere sulle gambe. Il pubblico ulula ed è in visibilio, le ore corrono, entrambi gli uomini sopportano colpi micidiali. La fatica è devastante e inizia a subentrare nei due combattenti una forte disidratazione. Il pubblico è ‘orrendamente affascinato’ dallo spettacolo sul ring. L’ansia comincia a farsi largo negli animi di chi assiste, sale una certa angoscia, i volti dei due pugili sono segnati, ogni round è quasi un’agonia che sembra non avere mai fine. È un incontro estremo, uno degli ultimi ‘slaughter match’ del secolo XIX. Solo anni più tardi si penserà a codificare una durata standard che - nel tempo - verrà poi più volte rimodulata, a tutela della sicurezza dei pugili. Andy Bowen e Jack Burke e, sembra incredibile, è stanco persino l’arbitro, quel professor John Duffy che in sette anni di carriera collezionerà 26 presenze sui quadrati americani, istruttore in quello stesso Olympic Club dove suda e si interroga su chi vincerà la borsa in palio da 2.500 dollari. Dopo i primi ventiquattro round sembra che Burke sia in vantaggio per come ha incassato i colpi di Bowen, ma poi l’altro è salito in cattedra. Alla fine del round numero quarantotto Bowen manda ‘Iron’ al tappeto, proprio mentre suona il gong che impedisce a Duffy di contare i dieci secondi a Burke. La gente è entusiasta e qualcuno incomincia a scommettere su una fine imminente del match. I due resistono al dolore. Col passare dei minuti l’incontro si fa ancora più brutale e le difese dei due pugili cominciano ad allentarsi. Le braccia si abbassano, i riflessi si annebbiano. Dopo la cinquantesima inizia una lenta danza in cerchio nel quadrato, interrotta di tanto in tanto da un colpo a vuoto o schivato a fatica. Tra gli spettatori c’è chi sbadiglia, le lancette segnano la mezzanotte, dalle prime file si alza un coro. Qualcuno canta ‘Home, sweet home’ , manca l’adrenalina e sangue e ferite ora si avvertono in maniera più nitida e netta. Anche il passo di John Duffy diventa incerto. Si combatte sul ring da quasi quattro ore e l’atmosfera è sconcertante. Nessuno dei due pugili sembra avere il colpo risolutore, nessuno vuole rinunciare. Qualcuno intorno si è addormentato sulle sedie con i pop corn in mano che - come grani di una clessidra - cascano giù uno per volta in terra. All’una di notte un pezzo di sala dell’Olympic Club si svuota. C’è chi va a casa paradossalmente più stanco dei due che se le stanno ancora dando di santa ragione sul ring. La sfida prosegue, la notte avanza e si avvicina l’alba. Al round 108 l’arbitro chiama a sé i due pugili. Bowen è pieno di lividi e ha gli occhi gonfi, Burke pare abbia fratture a entrambe le mani, fatica a continuare ma non cede. Duffy è perentorio: “Signori, vi concedo ancora due riprese per completare questo combattimento, poi sarò io a dichiarare la fine e interromperlo. Quindi ancora due round e poi stop, si finisce!”. Sono due round all’arma bianca, nei limiti del possibile, alla fine dei quali, Bowen e Burke danno quasi l’impressione di temere che l’arbitro possa ripensarci e chiedere loro di alzarsi dagli sgabelli agli angoli. Ma il professor John Duffy ha una parola sola. Al termine del round numero 110 ha lanciato un cenno d’intesa a giudici e annunciatore e si appresta a dichiarare il ‘no contest’. Chiama a sé pugili e secondi e in un bagno di sangue e sudore pronuncia un verdetto di parità che in realtà non accontenta nessuno dei due boxeur. Entrambi campioni, borsa divisa a metà e tutti a casa dopo 110 round e 7 ore e 19 minuti di combattimento. Quell’incontro di boxe passerà alla storia come il leggendario scontro tra Andy Bowen e Jack Burke. Un match iniziato alla sera e trascinatosi fino all’alba del giorno successivo, senza che nessuno dei due pugili potesse rivendicare una vittoria chiara. Un evento estremo che diventerà un punto di svolta cruciale per la boxe, contribuendo allo sviluppo di ulteriori nuove regole volte a diminuire il numero di round e introdurre misure di sicurezza. Ognuno dei due pugili, si ritrovò a pagare un prezzo fisico enorme ed esausto portò a casa meno di milletrecento dollari. Una miseria in confronto allo sforzo e al rischio corso. Per chi ebbe la fortuna di assistervi, quel match diventò l’ultimo potente e sobrio ricordo del passato crudo, e a volte brutale, della boxe. Considerando che nel 1890 l'aspettativa di vita media era salita intorno ai 41 anni, scoprire oggi che Andy Bowen morirà solo venti mesi dopo quell’eroico incontro, all'età di 27 anni, mette davvero molta tristezza. Il suo ventisettesimo e ultimo combattimento contro George Henry ‘Kid’ Lavigne gli sarà fatale. Al diciottesimo round, a causa di un knock out, cadrà in terra battendo violentemente la testa sulla superficie non imbottita del ring, morendo alle sette del mattino seguente senza mai riprendere conoscenza. Non andrà meglio il destino dell’arbitro John Duffy che, poco più di cinque anni più tardi di quella storica nottata, lascerà questa terra ucciso da una inesorabile cirrosi all’età di trentaquattro anni. In quanto a Jack Burke, ebbe una vita un po' più lunga dei protagonisti di quell’indimenticabile evento. Burke nel febbraio del 1904 tenterà di ritornare sul ring dopo anni di inattività ma senza successo. In cuor suo non ha mai digerito quel ‘no contest’ che significava un po' avere combattuto per nulla per 110 round, come se quel match non si fosse mai svolto. E meno ancora che il New York Times avesse escluso a priori una rivincita quasi subito. Sapere, poi, che a meno di due mesi da quella sfida il suo rivale Bowen aveva incontrato Jack Everhardt vincendo per kot all’ottantacinquesimo round e intascando 2.000 dollari di borsa era stato il colpo di grazia. L’anno successivo Jack Burke completò la discesa all’inferno divorziando da Rose Postlewaite . Burke si spense all’età di quarantaquattro anni al Mublenberg Hospital nell’ottobre del 1913. La breve esistenza dei protagonisti del match più lungo della storia appare in realtà migliore se si considera che si trattava di uomini, appartenenti per lo più alla classe operaia o medio bassa e che vivevano in città, tre fattori che all’epoca tendevano a ridurre l'aspettativa di vita di diversi anni. A quei tempi già la mortalità infantile era elevata. Ma forse è più significativo chiedersi quale fosse la loro aspettativa di vita all'età in cui combatterono i primi incontro di boxe, dato che a quel punto avevano già superato gli anni più pericolosi e andavano incontro a un ‘mestiere’ pieno di rischi. Forse essere pugili ha ulteriormente accorciato la loro vita di almeno una decina di anni, ma quel match li ha proiettati nell’eternità. E di questo ne erano consapevoli sin dal primo istante in cui John Duffy disse loro che era arrivato il momento di fermarsi. Nel 2004 Clint Eastwood regalerà al mondo la meravigliosa pellicola sulla boxe, ‘Million dollar baby’, tratto da un racconto della raccolta ‘Rope Burns: Stories from the Corner-Lo Sfidante’ di Jerry Boyd e ispirato dalla vita di Katie Allam che ebbe un grave incidente sul ring che le causò un'emorragia cerebrale, coma e conseguente stato vegetativo. In quel film, che nulla ha a che spartire con la storia di Bowen e Burke, c’è tuttavia un passaggio che pare scritto apposta per il match dell’eternità: “Se c’è una magia nella boxe è la magia di combattere battaglie al di là di ogni sopportazione, al di là di costole incrinate, reni fatti a pezzi e retine distaccate. È la magia di rischiare tutto per realizzare un sogno che nessuno vede tranne te”. E viene da chiedersi, ancora oggi, quale dannato sogno intravedessero Andy e Jack centotrentadue anni fa…

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Lucio Rizzica