L'anima dilaniata del campione Paul Spadafora

Normalmente, quando i grandi campioni sportivi smettono di gareggiare o misurarsi con i loro avversari, là dove decidono di ritirarsi a vivere diventano delle gradite e benemerite eccellenze, amate e benvolute dalle loro comunità. Celebrati, adorati, rispettati, tutelati in una dorata privacy che consenta loro di godersi la meritata fama e -al tempo stesso-dare lustro al quartiere. Non è così, non è mai stato così, per Paul Ross Spadafora, ex campione del mondo dei pesi leggeri IBF e membro della Pennsylvania Boxing Hall of Fame. Perché ‘The Pittsburgh Kid’, come era soprannominato il pugile di McKees Rock con ascendenze calabresi dell’immediata provincia cosentina, cresciuto nella povertà più assoluta, orfano di un padre - Silvio - morto di overdose quando lui aveva ancora solo dieci anni e rimasto senza casa a lungo da adolescente, non è mai riuscito a farsi amare da nessuno. Anzi, per la verità non ha mai amato neppure sé stesso, costretto com’è stato a prendere la vita a pugni già dall’età di undici anni, dopo avere scelto fra gli studi e il ring e avere capito che forse la boxe avrebbe potuto dargli di più. È chiaro che con un’infanzia così non fu difficile per Paul incamminarsi sul sentiero iconografico classico del pugile che arriva dal basso, pieno di difficoltà, disagiato e in cerca di riscatto. Anzi, gli venne quasi naturale cedere all’alcool e alle droghe già ben prima della maggiore età ed entrare a far parte di quel sottobosco violento di quartieri periferici e selvaggi nei quali c’è poco da scegliere fra vivere o morire. Un personaggio ‘pasoliniano’, che ‘aveva capito che cosa fosse la miseria e che la miseria non fosse uno schifo, ma peggio. Una cosa triste’… E che dalla miseria si esce digrignando i denti, stringendo i pugni e picchiando per primi. E a volte finendo anche con il farlo quando non ce n’è bisogno. Sbagliando. Fu per questo che a Paul convenne dichiararsi colpevole di aggressione aggravata per aver sparato alla sua ragazza Nadine Russo al petto nell'ottobre 2003 dopo una notte di bevute e che - nel febbraio 2005 - venne condannato a sei mesi da scontare in un severissimo centro di riabilitazione, mentre lei dava alla luce il suo secondo figlio e prima che lui entrasse in prigione per scontare la sua pena. Un continuo elastico, quello di Paul, fra il carcere e un tentativo di reinserirsi nella società civile, fatto di buoni tentativi sinceri e inevitabili cadute. Che nel settembre e nell’ottobre del 2011 portò a due arresti entrambi per guida in stato di ebbrezza e gli procurarono una causa da parte del suo manager , presso il tribunale della contea di Allegheny, nei pressi della sua cittadina natale, per violazione del contratto professionale. Una serie di stop and go che, tuttavia, non frenarono mai la ferma volontà di Spadafora di combattere sul ring. Tanto che nel novembre 2006 tornò dopo un periodo di inattività di 32 mesi per fermare Jesus Francisco Zepeda al quinto round all'Avalon Hotel di Erie, in Pennsylvania. Lo stesso luogo dove ritornerà un anno e mezzo più tardi per affrontare Shad Howard e batterlo per decisione unanime dei giudici. Un altro ritorno, due anni più tardi lo opporrà - vincente - all’abruzzese Ivan Fiorletta, sconfitto per KO. E ancora dopo due anni piegherà la resistenza di Humberto Toledo. A dimostrazione che qualità e potenza non lo hanno mai abbandonato. Quella qualità e potenza della quale farà le spese il 6 aprile 2013 Robert Franckel nella sfida per il campionato NABF dei pesi superleggeri. In definitiva Paul Spadafora fu un gran bel pugile. Che subì una sola sconfitta in carriera, il 30 novembre 2013, da Johan Pérez ai punti, perdendo il titolo WBA dei pesi welter leggeri. Una sconfitta che pesò non poco sulla sua decisione di ritirarsi maturata dopo l’incontro con Héctor Velázquez disputato l’anno successivo, non senza rimpianti e prima di ricominciare a vivere la vita tumultuosa di sempre. Nell'aprile 2016, Spadafora venne accusato di aggressione per una lite con una donna fuori dalla Redstone Tavern a Crafton, in Pennsylvania, rimediando l’ennesima condanna, stavolta soltanto a frequentare corsi di gestione della rabbia. Otto mesi dopo la polizia lo fermò mentre durante una lite stava aggredendo il fratello con un coltello, ferendolo alla coscia e prendendo a calci la madre nella schiena. A marzo 2018, Paul se la cavò dichiarandosi colpevole di aggressione semplice, resistenza all'arresto e minacce terroristiche, e scontando la pena con rilascio sulla parola. Ma anche quando non se le cerca Paul Spadafora si ritrova coinvolto in situazioni poco chiare. Come l’aggressione rimediata dal proprio cane nell’autunno di un anno fa, nel corso della quale ha riportato la recisione di un'arteria del braccio sinistro. Una cicatrice in più - visibile - sul corpo di un uomo segnato da centinaia di cicatrici invisibili e tormentato da mille fantasmi. Un uomo che ama alla follia la sua ‘Steel city’ e che ha provato a forgiare un’armatura d’acciaio anche per sé, senza tuttavia mai riuscirvi. Per questo forse Paul ha deciso di lasciare Pittsburgh e trasferirsi a Las Vegas, dove ha scelto di allenare pugili in una palestra costruita nel suo garage. Provando ad allontanarsi a cinquant’anni dalle vecchie tentazioni così magnetiche di quei luoghi e della sua gente. Lui che di crolli ne ha conosciuti tanti e di risalite ha dovuto affrontarne molte e da solo. Lui che non ha mai dimenticato quel colpo di pistola che attinse Nadine all’interno del suo Hummer H3 e che lo catapultò in una prigione, dalla quale uscì come un estraneo non più benvenuto nella sua città. Pittsburgh è piccola, in fondo. E quando Paul ci torna non passa inosservato. La sua comunità di un tempo non lo ha perdonato, nonostante Nadine lo abbia riaccolto e la loro storia in un certo senso ancora duri e vada avanti. Non è chiaro se Nadine abbia riaccolto il Paul sollevato dall’abisso di una paternità inesistente e a suo modo violenta o il Paul irriconoscibile angosciato dai propri demoni. Ma quelle braccia tese hanno aperto una breccia nel cuore di Paul: “Sai quante lezioni impari in venti anni? Non sono più la stessa persona… “ E questo forse è un bene, anzi sicuramente lo è anche per i pugili in erba che Paul allena con entusiasmo, arrabbiandosi se qualcuno non riesce a fare quello che lui sapeva fare. Lui che era un mancino sveglio, veloce, abile e che sapeva tenere la distanza. Poi la prigione rovinò tutto, molti incontri vennero annullati, molte possibilità saltarono e la sua carriera rimase una grande incompiuta. Non andando oltre il pari con Leonard Dorin in un incontro per l’unificazione dei titoli IBF e WBA e uno ‘sparring’ con Floyd Mayweather, al quale ancora ripensa. Le persone a cui era legato non ci sono più - come il suo vecchio allenatore PK Pakora - o Jesse Reid e Tom Yankello, Buddy McGirt, Pernell Whitaker, Panama Lewis. Ora deve sbrigarsela da solo in una palestra con colori dominanti giallo e nero e inquietudine per le occasioni perdute che si respira ovunque. Un’inquietudine che tenta di esorcizzare con un mantra stampigliato anche sui vestiti: ‘do the right thing’, ‘fai la cosa giusta’. Ciò che tante volte Paul non ha saputo o voluto fare… “Guarda, ascolta, tieni tutto… non puoi portare niente con te… c’è un giorno per volta…” “Se qualcuno avrebbe dovuto andarsene, quello avrei sicuramente dovuto essere io. Non so come ho fatto a superare tutto quello che mi è successo, nove volte su dieci, se facevo una scelta sbagliata ero sotto l’effetto di sostanze stupefacenti”. Paul la casa di Pittsburgh l’ha venduta. E con essa ha cercato di alienare anche qualche ricordo di bambino, quando - stufo di litigare e fare a pugni a scuola e per strada - entrò in una palestra e fece amicizia con la boxe. In casa il pugilato non era proprio uno sconosciuto, un cugino di Paul era Joey Maxim. Il cugino, di origine italiana pure lui, in realtà all’anagrafe faceva Giuseppe Antonio Berardinelli, ma era stato ribattezzato Maxim in omaggio alla prima mitragliatrice automatica al mondo, per la sua abilità nel colpire l'avversario con serie rapidissime di jab di sinistro. E Fu vincitore dei Golden Gloves di Chicago nel 1940 e campione del mondo dei mediomassimi dal 1950 al 1951 e dal 1951 al 1952. Ricordato ancora oggi per la sua seconda difesa della corona mondiale allo Yankee Stadium in una New York nel pieno di un'ondata di calore da record. Nel corso del combattimento, Sugar Ray Robinson soccombette aggredito dall'ipertermia e per i duri colpi infertigli da Maxim. Perfino l'arbitro, Ruby Goldstein, fu costretto ad abbandonare l'incontro dopo essere collassato sulle corde. L'incontro terminò grazie ad un arbitro di riserva. L'incontro entrò nella storia del pugilato perché fu l'unico che Robinson - che rimarrà inattivo per tre anni - non terminò nella sua carriera di 201 combattimenti. Ma nella famiglia di Paul Spadafora anche il padre era un pugile dei Golden Glove, il nonno era uno sparring boy. Della sua prima vita Paul ha ancora un bel ricordo di Eric Pogolak, un pugile sottovalutato che gli aveva insegnato a scansare i colpi e non sprecare energie e gli voleva bene. McKees Rock è sempre stata una città operaia, piena di problemi. Paul non tornava spesso a casa, ma quando lo faceva assisteva a terribili liti familiari, al padre che picchiava con frequenza la madre e finché lui non è morto ha assorbito tutta quella violenza e l’ha fatta propria: “Senza la boxe sarei probabilmente morto o sarei rimasto in prigione a vita. Ma quella violenza mi ha rovinato la carriera…” “Se non avessi bevuto non avrei mai fatto quello che ho fatto, soprattutto a mia moglie. Lei mi ha perdonato, ma le cose che ho fatto erano gravi. Un amico mi diceva che ero come Jekyll e Hyde. Le cattive abitudini sono fottutamente difficili da perdere. Ho dovuto superare la tragedia in cui sono cresciuto. Non ho fatto tutto alla grande, ma ho fatto tutto bene. Non ero il più forte nei pugni o il più veloce, ma lavoravo più duramente di chiunque altro, ed è da lì che è nato il mio successo…”. Un successo che Paul Spadafora aveva costruito già da dilettante. Un record di 75-5 prima dell’esordio fra i professionisti, complicato dal solito ‘imprevisto’: un colpo di pistola sparatogli da un poliziotto che lo inseguiva in macchina, che gli recise un tendine di Achille. Poi, dopo i primi successi da pro, arrivato all’incontro con Dorin, quello della riunificazione dei titoli, con la vita che gli sorrideva, ecco la caduta. “Avevo settecentomila dollari in banca, tre ville, sei autovetture, una bella fidanzata incinta, ma fui arrestato per il tentato omicidio di Nadine al culmine di una discussione sulla paternità del bambino...”. “Uscito dietro versamento di una cauzione di cinquantamila dollari, fui ancora arrestato per aver tamponato un'auto della polizia, in evidente stato di ubriachezza. Nuovamente in libertà, ed annunciato il matrimonio con Nadine, tornai dietro alle sbarre per possesso e consumo di cocaina”. Un disastro che mandò al tappeto il fenomenale talento del mancino superleggero di origine italiana, avviato sulla medesima china del suo grande concittadino Billy Conn, altra vittima di striscianti demoni e vizi insanabili. A guardarlo negli occhi, Paul non riesce a nascondere il grande rammarico per tutto quel talento sprecato. Manifesta il suo grande amore per i tre figli e il rispetto per una moglie che ha saputo perdonarlo. Orgoglioso di come ha reagito davanti ai suoi occhi al KO che stava subendo da Victoriano Sosa e che ESPN 2 definì a suo tempo ‘il ritorno del decennio’. Nel tempo libero gioca a basket e sogna ancora il Madison Square Garden. Si allena, ma molto meno e appena può torna alle origini con pasta, polpette, trippa, soppressata e cannoli. La vita turbolenta di Paul Spadafora sembra scorrere adesso più lenta. Il rifiuto paterno è oramai un brutto ricordo, la morte dei suoi cari lo ha segnato, si sente in qualche modo una vittima del pugilato ma anche un sopravvissuto della vita. Scampato a overdose e letargie, condannato a dover camminare per sempre appoggiato a un bastone e invece diventato campione. Ma a dispetto delle apparenze, uomo fragilissimo, che “ogni volta che gli succede qualcosa di brutto, se la prende con sé stesso e si auto sabota, perché è molto emotivo”. Parola di Nadine. A Paul Spadafora non sono mai importati fama e fortuna. Piuttosto ha sempre desiderato che la sua storia venisse raccontata. E lo ha fatto in un libro concepito come uno strumento didattico per chi è in difficoltà, per fare qualcosa di importante nella propria vita. Paul vuole essere ricordato per aver sconfitto i suoi demoni e averne vinto. Vuol dimostrare di aver compreso che è stupido, irresponsabile, una fottuta stronzata andare in giro ubriaco fradicio con una pistola. Paul lo ha dichiarato nero su bianco. La sua è stata una vita assurda. Quando era campione del mondo in attività, divideva il suo tempo tra ubriachezza, combattimenti e allenamento. Per tre mesi viveva come un alcolizzato senza speranza, poi nei ventuno giorni di ritiro si disintossicava. Poi si allenava per altri due mesi e vinceva un incontro per il titolo mondiale. Tutto sotto controllo. Fino a quel colpo di pistola esploso a Nadine. “La settimana prima un tizio ha cercato di accoltellarmi in bagno. Gli ho puntato la pistola proprio sulla fronte e gli ho detto: 'Amico, hai circa due secondi per uscire da questo bagno o ti faccio saltare la testa'...” “Dopodiché mi sono detto: 'La prossima volta che punto una pistola contro qualcuno, per qualsiasi motivo, la userò'. Non potevo andare in giro con una pistola e fingere di doverla usare e poi non usarla. Ero fuori a bere, volevo continuare a bere. Nadine stava guidando, è scesa dall'auto, mi ha beccato, abbiamo discusso e poi... Quando sei dipendente e fatto, non sei quello, non sono io. Ora non penso nemmeno più come quella persona, è molto più chiaro, è come il giorno e la notte. Non vado in giro senza armi, senza pistole, non ho giorni in cui svengo...”. Non suoni come una giustificazione. Ma ognuno è il prodotto di ciò che è stato. Vivere con un padre che ti insegna a bere già a sette anni, che si droga, che alza le mani, cambiare decine di scuole, affrontare gli insegnanti, fare a pugni dovunque alla fine diventa uno stile di vita. Quando riesci a svoltare, il successo e il denaro ti rubano la magia e ti fanno sentire un re, hai soldi in tasca e gente intorno che te li fa spendere: “Non so oggi dove siano finiti questi figli di p*****a. Io cercavo di aiutare chi stava peggio di me, loro se ne approfittavano”. “Mi dicevo, non posso essere campione del mondo e restare immobile mentre il mio vecchio amico ancora spaccia all’angolo della strada. Pagavo anni di affitto alla gente. Mi sentivo in dovere. Devo avere ancora centinaia di migliaia di dollari da qualche parte ma non so dove. E da anni non mi telefona più nessuno. Ma il mio passato mi perseguita. Mio fratello Harry si drogava, il piccolo è morto di crack, mia madre ne era dipendente anche a 73 anni. Io devo combattere fino in fondo, per la mia famiglia, per i miei figli, per Nadine. Altrimenti sarà la fine”. Mike Tyson una volta disse: "Tutti hanno un piano finché non ricevono un pugno in faccia". Paul Spadafora ne ha presi tanti in mezzo secolo, per passare dal trauma alla redenzione, trasformando un allenatore pedofilo da pericolo in tecnica di sopravvivenza. “Non mi sento in colpa di come sono andate le cose… Qualcuno una volta mi ha detto che la definizione di Inferno è quando la persona che sei incontra la persona che avresti potuto diventare". Paul bambino era innamorato della pellicola di ‘Rocky’, Paul uomo ama la boxe più di prima. “Devo restituire qualcosa. È l'unica cosa che posso restituire. La boxe mi ha salvato la vita”.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

L'anima dilaniata del campione Paul Spadafora

Lucio Rizzica