C’era una volta la Jugoslavia: lo sport prima della guerra

Mir è una parola che in serbo, croato e bosniaco significa pace o mondo. Esattamente trent’anni fa a Parigi, le due parole convergevano in una sola, ponendo fine a una delle guerre più sanguinose mai vissute dall’Europa, con oltre 100mila morti sul campo, oltre due milioni di profughi e il primo efferato genocidio dai tempi dell’Olocausto. Nella capitale francese si erano ritrovati Slobodan Milosevic, presidente della Jugoslavia e rappresentante degli interessi dei serbo-bosniaci, il presidente della Croazia, Franjo Tudman, e quello della Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegovic. I tre, con la ratifica degli accordi di Dayton di qualche settimana prima, misero la parola fine alla guerra in Bosnia, iniziata nel 1992, e di fatto anche alla Jugoslavia, il sogno del Maresciallo Tito di unire sotto un’unica bandiera quattro lingue, tre religioni e sette stati. Una nazione che nello sport è stata sinonimo di genio e sregolatezza, talento e poesia. E che ancora oggi, nei suoi mille frammenti, domina in tante discipline e regala campioni di rara dote. Carri armati e basket: così si è perso il "Dream Team" Se c’è una squadra che rappresenta alla perfezione il dominio sportivo della Jugoslavia in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni è sicuramente la Nazionale di basket che dai Mondiali juniores di Bormio 1987 all’Europeo di Roma 1991 è riconosciuta come una delle più dominanti mai viste su un parquet. La storia l’ha raccontata perfettamente un regista croato, Jure Pavlovic nel docufilm "The lost Dream Team", in onda in questi giorni su Sky . Una generazione di fuoriclasse formata da Vlade Divac, Aleksandar Djordjevic, Toni Kukoc, Dino Radja, Predrag Danilovic, Zoran Savic, Zarko Paspalj e Drazen Petrovic. Campioni del mondo in Argentina nel 1990 , si ripeterono dodici mesi dopo a Roma. Ma sul podio della capitale risuonava un inno e sventolava una bandiera che non esistevano già più, con la guerra civile in corso e i carri armati nelle strade. “Il Paese per cui stavi giocando stava cessando di esistere, ma andavamo in campo e davamo il meglio”, ha raccontato Dusan Ivkovic, coach di quel “The lost Dream Team”. Da Cosic a Dalipagic, le macchine da canestri slave La Jugoslavia, ancora prima della generazione di fenomeni degli Anni Novanta, è sempre stata un serbatoio inesauribile di campioni di pallacanestro. A partire dai ‘figli’ della Seconda guerra mondiale come Kresimir Cosic, due scudetti con la Virtus Bologna, guardia in un corpo di 209 centimetri, che prima di morire svolse anche il ruolo di diplomatico della neonata Repubblica Croata a Washington. Per non parlare di Radivoj Korac, nato a Sombor , sette volte consecutive capocannoniere del campionato slavo, capace di segnare 90 punti in un match di Coppa Campioni e cui la Fiba, per quasi trent’anni, ha dedicato la seconda coppa europea per importanza. E’ mancato pochi mesi fa il bosniaco Drazen Dalipagic, un’altra macchina da canestri vista in Italia a Venezia , Udine e Verona, campione olimpico a Mosca 1980 con la Jugo e inserito nella Hall of Fame. Calcio e pallanuoto: lo sport di squadra come strumento per l’integrazione ‘Fratellanza e unità tra le nazioni e le minoranze nazionali’ era lo slogan del Partito comunista jugoslavo guidato dal Maresciallo Tito. Lo sport era considerato un importante strumento per l’integrazione sociale della Jugoslavia, caratterizzata da una rivoluzione comunista mescolata ad un durissimo conflitto tra serbi e croati che spesso sforava i limiti della guerra civile. “Gli sport di squadra in Jugoslavia servivano a dimostrare che era possibile creare una società multietnica e multiculturale di successo, basata sugli ideali del socialismo e che il concetto di fratellanza ed unità funzionava”, ricorda Ivan Djordjevic, antropologo dell’Università di Belgrado, come riporta Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa. Anche per questo motivo, oltre al basket crebbe la popolarità e la forza di altre due sport collettivi come il calcio e la pallanuoto. Nel fudbal la Nazionale non ha mai raccolto in proporzione all’enorme talento dimostrato: un argento olimpico nel 1948 e due secondi posti agli Europei nel 1960 e nel 1968 per i ‘brasiliani d’Europa’, come venivano considerati i vari Dzajic, Marjanovic e più recentemente Stojkovic, Pancev, Mihajlovic, Suker, Savicevic, Prosinecki e Boksic. Diverso il discorso per la pallanuoto, dove la Nazionale jugoslava vanta tre ori olimpici, due Mondiali e il titolo europeo del 1991, conquistato in simbiosi con i colleghi della pallacanestro, proprio mentre la Jugo si stava sgretolando sotto i colpi di mortaio e la voglia di indipendenza. Cosa sarebbe ora la Jugoslavia unita? Doncic, Bogdanovic, Hezonja, Vucevic e Jokic. Uno sloveno, un montenegrino, un croato e due serbi. Con questo quintetto la Jugoslavia rischierebbe di vincere tutto a livello Fiba. Non siamo sui livelli del “The Lost Dream Team”, ma i soli Doncic e Jokic in pick and roll sarebbero illegali per ogni difesa del globo. E cosa dire della pallanuoto, con Serbia e Croazia che si sono giocate l’oro olimpico a Parigi 2024? Nella pallavolo, specialmente femminile, le serbe sono costantemente tra le migliori al mondo, capitanate dal fenomeno Tijana Boskovic. Nel calcio quanti gol avrebbe segnato la coppia Vlahovic-Dzeko con alle spalle le geometrie di Modric, Brozovic, Milinkovic Savic, Kovacic e Pjanic? Senza dimenticare gli sport individuali, che subito dopo la guerra hanno visto spadroneggiare gli ex jugoslavi, a differenza di quanto accadeva in precedenza. I 24 Slam del ‘goat’ Novak Djokovic, ma anche Ivanovic e Ivanisevic nel tennis, Blanka Vlasic nell’atletica, Milorad Cavic nel nuoto, i fratelli Kostelic, Ilka Stuhec e Tina Maze nello sci alpino. Per chiudere con quello che sta ridisegnando i confini del più forte corridore nella storia del ciclismo, Tadej Pogacar da Komenda. Oggi Slovenia, ieri Jugoslavia.

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C’era una volta la Jugoslavia: lo sport prima della guerra

Claudio Barbieri