Ambrogio Fogar, il mio amico supereroe

Non so a quanti di voi il suo nome dica qualcosa. Se ne ricorda di certo chi oggi ha più di cinquantanni, perchè l’Ambrogio - lo chiamavamo così, con l’articolo davanti alla maniera dei milanesi come lui - tra gli anni Settanta e gli Ottanta era sempre nelle cronache per qualche avventura pazzesca. Velista, navigatore oceanico, esploratore, pilota, paracadutista, conduttore televisivo, marito, padre, amico. I media dell’epoca erano pochi, ma fondamentali: giornali, riviste, tv, radio, il passaparola e nient’altro. Eppure se ci fossero stati i social il mio supereroe sarebbe stato uno di quelli seguitissimi. Un influencer colossale e globale. Amborgio Fogar era matto? Alcuni pensavano di sì, perchè uno che tra i venti e i trent’anni molla un buon posto da assicuratore per lanciarsi nelle bellezze e nei guai del mondo naturale in tutti i modi più strani e pericolosi possibile, forse tutte le rotelle a posto davvero non le ha. Anche se io ho sempre pensato che le avesse più a posto di tutti. Tanto per cominciare il 7 dicembre del 2024 ricorreva il cinquantenario della fine del giro del mondo di Amborgio Fogar in solitaria a bordo di Surprise, una bella barca a vela in legno di undici metri costruita in Italia dal Cantiere Navale71 di Nicoló Puccinelli. Adesso le barche che affrontano la Vendee Globe sono dei mostri di tecnologia, sono semi-volanti e, con un solo uomo a bordo, impiegano tre mesi a bersi il mondo. Allora no. Con Surprise no. Con Surprise servirono ad Ambrogio 402 giorni per partire da Castiglione della Pescaia e poi tornarci sano e salvo dopo aver circumnavigato il pianeta, scegliendo la via più difficile per qualunque marinaio: solo, contro i venti e le correnti, navigando sempre da est verso ovest. Quando tra il 1973 e il 1974 affrontò quel giro del mondo in cui gliene capitarono di tutti i colori, da solo aveva già attraversato l’Atlantico, aveva già avuto un incidente lanciandosi con il paracadute, aveva già il brevetto di pilota d’aerei, aveva già lavorato in un ufficio e al Teatro la Scala di Milano, e aveva pure già scelto che la città dovesse essere un luogo di passaggio tra un’impresa e un’altra. Era del 1941 Fogar, aveva poco più di trent’anni e aveva capito molto bene che gli interessavano la vela e la navigazione, gli interessava scoprire su sé stesso i limiti dell’uomo, gli interessava non essere uno del mucchio, uno omologato. Gli interessava fondamentalmente essere libero. Quando Ambrogio partì per il giro del mondo io avevo sette anni e mio padre era suo amico. Papà era consigliere comunale a Milano e per onorare l’amicizia con Amborgio, fiero cittadino milanese nonostante l’origine triestina di suo padre, riuscì a far concedere alle sue imprese nautiche il patrocinio del comune. Surprise d’un tratto si chiamo “Surprise Città di Milano” e io cominciai a seguirlo con gli occhi e il cuore sognanti, sgranando preghiere per lui in compagnia di mamma e papà prima di addormentarmi. Non esistendo ancora le tramissioni satellitari, i collegamenti con Surprise avvenivano raramente e attraverso reti di radioamatori. Quando veniva il giorno dell’appuntamento-radio accompagnavo papà a casa di Eolo Attilio Pratella e aspettavamo di sentire gracchiare dalla radio la voce lontana e quasi indistinguibile di Fogar. La trasmissione cominciava sempre dicendo: “Qui Italia2NSF, imabrcazione Surprise in posizione tal dei tali… Abbiamo superato una tempesta… Abbiamo avuto una collisione con una balena… Ho dovuto effettuare riparazioni a bordo… Ci siamo rovesciati e siamo tornati dritti… Surprise naviga di bella e sicura…Vi abbraccio”. Una sera, mandò i saluti a mio padre e persino a me, che ero lì, piccolo, nell’angolo della saletta di un appartamento di Milano davanti ad un enorme apparato radio e, ascoltandolo, me lo immaginavo dall’altra parte del mondo con le sue mani forti mentre regolava le vele e guidava Surprise a solcare onde grandi come palazzi. I miei compagni di scuola alle elementari del San Carlo di Milano pretendevano allora aggiornamenti da me sul mio amico Ambrogio. Per loro ero giustamente un contatto privilegiato con quell’uomo, di cui parlavano tutti i giornali, quando c’erano aggiornamenti da dare. Sapevano che quell’Ambrogio Fogar era persino venuto a mangiare a casa mia parecchie volte. E io allora raccontavo. Chissà, magari romanzavo pure, ma mi prese con lui e quel suo giro del mondo un fuoco per la narrazione che credo abbia contribuito al mio imprinting professionale per il futuro. Fui a bordo di un peschereccio al largo di Castiglione della Pescaia il 7 dicembre del 1974, quando quel girò finì con Surprise che, con lo scafo e le vele sporchi, acciaccati e rattoppati dopo più di un anno di schiaffi, entrava nel canale di Castiglione. Stringevo forte la mano di papà e mamma, mentre le onde di un Tirreno che lo accoglieva al ritorno con cielo e mare tempestosi, sballottavano Surprise e le barche festanti del seguito, compreso il peschereccio che ospitava noi, in una danza tanto gloriosa quanto nauseabonda. Ricordo Amborgio appena sbarcato in mezzo alla folla muovere i primi passi sulla terraferma con il piede insicuro, abituato com’era ai movimenti del mare. Ricordo le prime parole uscirgli dalla bocca arrochite da corde vocali a riposo nella solitudine di quell’uomo da troppo tempo. Ricordo una festa serale. Ricordo la presenza dell’Ammiraglio medaglia d’oro al valor Militare, Luigi Durand de la Penne, che tutti guardavano con ammirazione. Poi ricordo che qualche settimana più tardi Surprise venne trasportata fino a Milano, per volontà di mio padre e della Giunta Comunale, ed esposta proprio nel centro della Galleria Vittorio Emanuele, accanto al Duomo. Continuavo a salire e scendere su quella barca in Galleria. Entravo nella cabina che aveva legni, attrezzature e tessuti ancora fradici di oceani. E mi immaginavo in mare chissà dove, al timone di quella barca a cui avevano imparato a voler bene tutti gli italiani. E ricordo pure che un anno dopo si trattò di scegliere un padrino per la mia Cresima. Noi del San Carlo eravamo ben addestrati ai sacramenti. Eravamo cintura nera di catechismo e pensai che questo incontro con lo Spirito Santo, un tipo importante nel giro della santissima Trinità, dovesse essere onorato con un padrino degno. Chiesi allora a papà e mamma di Ambrogio. Loro mi invitarono a telefonargli personalmente, cosa che feci incassando un “sì con gioia”. La Cresima andò liscia, credo. Ricordo solo Ambrogio che accompagnandomi verso il cardinale all’altare mi tirava le guance e la pelle dei gomiti con mani robuste e callose e che, sentendomi teso ed emozionato mi disse: “Tranquillo vecchio mio, ci sono qua io”. “Vecchio mio” a uno di otto anni fu una cosa bellissima che ingigantì le mie sicurezze. Ricordo poi un breve tratto in macchina fino a via Petrarca, dove abitava con la moglie Maria Teresa e la prima delle sue due figlie: era appena nata Francesca Margherita. La bimba, piccolissima, strillava come un aquila e Ambrogio fingeva di cullarla sul gas dei fornelli della cucina per addormentarla. Ma fu lì a casa sua che mi regalò un meraviglioso modello di Surprise che sta ancora nel mio salotto e da cui non mi separerò mai. Se si può volere bene a qualcosa, ecco, quello è in assoluto l’oggetto a cui sono più legato, perché è il simbolo di quell’uomo, di quel mio supereroe. L’avventura di Ambrogio passò per mille altri capitoli, tra cui quello forse più tragico: era il 1978 quando al largo della costa Argentina, portando Ambrogio Fogar in compagnia dell’amico giornalista Mauro Mancini, Surprise venne attaccata da un branco di orche. Nello scafo di legno si aprì un’enorme falla e Suprise affondò in pochi minuti, lasciando Ambrogio e Mauro a bordo di una zattera alla deriva, sostanzialmente senza viveri, per settantaquattro giorni che furono un dramma per tutti. Per loro e per le loro famiglie non sto nemmeno a dirvelo, ma anche per noi che li seguivamo da casa. Con le tecnologie dell’epoca ritrovare una piccola zattera gonfiabile a latitudini ormai antartiche era davvero peggio che trovare un ago in un pagliaio. Eppure il miracolo accadde, anche se si rivelò solo parziale. A bordo del cargo che li trasse in salvo ormai esausti e scheletrici, Ambrogio riprese le forze mentre Mauro Mancini, sfibrato dagli stenti, morì nella cuccetta calda di una cabina della nave sulla via del ritorno verso casa. Io, ormai dodicenne, ero stato di sicuro uno dei pochissimi al mondo convinti che Ambrogio e Mauro sarebbero stati ritrovati vivi. I supereroi dispersi non ero proprio capace di contemplarli. Fu la dimostrazione che l’ottimismo dei bambini qualche volta può pure essere ripagato da un miracolo, anche se con la scomparsa di Mancini fu tutt’altro che completo. Tornai a pensare ancora ad Ambrogio come ad un supereroe, ma anche a Mauro Mancini come un angelo custode che ci avrebbe protetti tutti. Negli anni 80 Fogar si dedicò poi ad una spedizione al Polo Nord, di nuovo da solo, a camminare sui ghiacci con una slitta trainata dal cane Armaduk, che divenne una celebrità. Era un po’ come se fosse il cane di tutti noi. Nel 1988 era ormai un affermato conduttore televisivo di Mediaset. Il suo programma 'Jonathan, Dimensione Avventura' aveva aperto il filone dei documentari di avventura nella tv commerciale. E fu proprio nell’88 che Ambrogio ed io, padrino e figlioccio ci ritrovammo… colleghi! Mi avevano preso a lavorare a Mediaset e in un contesto per me già fantastico fu bellissimo anche reincontrare Ambrogio. Io Io chiamavo “Vecchio mio”, lui mi tirava ancora la pelle dei gomiti e chiamava “Vecchio mio” me, come a riprendere un filo. Mi dava consigli sulla tv, su come stare davanti alla telecamera. Completò insomma quella seconda parte del mio imprinting professionale iniziata, sempre da lui, quando ero bambino. E si appassionò, come me del resto , ai motori, tanto da mettersi a partecipare ai rally raid. Fu nel 1992 che alla Pechino-Mosca-Parigi, la Range Rover guidata dal suo amico Giacomo Vismara ebbe un incidente che condannò Ambrogio, navigatore di rally ormai esperto, a una grave lesione cervicale con interruzione completa del midollo. Per uno degli uomini più attivi del pianeta, per il mio supereroe in carne ed ossa, sopravvissuto mille volte per forza personale, fede e miracoli, si aprì la strada di una grave tetraplegia. Ambrogio tornò a Milano che era in grado solo di parlare e di muovere la testa dal collo in su. Così sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni, anche se non smise mai di sperare nella scienza, negli uomini e in Dio. Nemmeno la sua respirazione era più spontanea. Una macchina gonfiava e sgonfiava automaticamente i suoi polmoni con un ritmo respiratorio cadenzato e innaturale. In quella sua nuova condizione fu ospitato dal suo caro amico Giampiero Gandolfo in un appartamento di Milano2, proprio dove noi di Mediaset avevamo l’ufficio. Cominciammo a fargli visita con cadenza regolare. Lo spostavamo dalla sedia a rotelle al letto e viceversa. Inserivamo modesti diversivi nella sua vita così costretta. Sostenevamo insieme conversazioni sulla vita e il suo senso; a qualcuno affidava confidenze intime figlie di quella prigionia. A volte arrivava Francesca Margherita, a volte, in braccio alla mamma, arrivava Rachele, la piccola secondogenita nata un anno prima dell’incidente. Ambrogio alternava momenti di grave sconforto ad altri di grande serenità e persino di allegria. Il passare del tempo gli rese quasi accettabile anche quella condizione, a patto di sentirsi utile e di dare un senso a quell’esistenza testimondiandola agli altri. Io gli raccontavo dei miei piccoli casini amorosi e lui mi chiamava “sciupafemmime”, offrendomi però sempre il consiglio giusto. Amborgio diventava ogni giorno più saggio e più profondo, in un'evoluzione che partiva già da basi elevatissime. Finché - forse proprio a lui - venne l’idea di tornare in barca. “Se prendiamo un’ambulanza, ci carichiamo Ambrogio con i suoi macchinari salvavita, troviamo la maniera di alimentarli con la corrente elettrica e una barca abbastanza grande per ospitarlo, potremmo fargli vivere davvero questa nuova avventura ”. Le straordinarie sorelle di Ambrogio, Rita e Maria Grazia, i suoi cognati, Giampiero e gli infermieri peruviani di Ambrogio, allestirono tutto per la nuova impresa. Fu individuata una grossa barca a vela che si chiamava Meresea e ci andammo ad imbarcare a Lavagna in un giorno di primavera. Io fui a bordo un po’ da figlioccio del proprio padrino, un po’ da amico e un po’ da collega che doveva documentare quell’uscita con le telecamere, per farne un piccolo documentario televisivo che ancora oggi rimane uno dei lavori di cui vado maggiormente fiero. Appena fuori dal porto la barca fu circondata da un branco di delfini, un evento che non è normalissimo navigando così vicino alla riva. Fu un momento magico e toccante. Ambrogio, che era sistemato disteso in una parte ben finestrata della timoneria, riuscì a vederli e ci disse commosso: “Allora non si sono dimenticati di me. Sono tornati a riaccogliermi in mare”. Già, sembrava proprio che fosse così. Piangemmo tutti. Ma poi cominciammo a divertirci e a farlo divertire, per tre giorni di navigazione che servirono ad aprire la strada ad un progetto molto più ambizioso. Il Giro d’Italia in barca a vela, con Ambrogio a bordo. Un‘ avventura nuova, a cui non potei partecipare, che prevedeva che a ogni porto di attracco Ambrogio tenesse incontri e conferenze e incontri, parlando della sua vita e delle due fasi - prima e dopo l’incidente - che l’avevano caratterizzata. Per quanto affaticatissimo Ambrogio Fogar tornò ad essere il solito fenomeno. Della parola e delle riflessioni stavolta. Fino all’ultimo miglio navigato, nel 2005, quando il cuore di quel supereroe in carne e ossa smise di battere. E Dio solo sa quante volte mi manchi ancora oggi non sentire più quei consigli, non sentirmi tirare la pelle dei gomiti, non sentirmi dire “Tranquillo vecchio mio, ci sono qua io” quando ne avrei bisogno. Perché le cose come le faceva e come le diceva Ambrogio sono rimaste introvabili, a meno di non provare a guardare profondo negli occhi di Francesca Margherita e di Rachele, di cui era letteralmente innamorato e che lo amano come fosse ancora qui, a inventarsene una delle sue.

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Ambrogio Fogar, il mio amico supereroe

Guido Meda