I circoli viziosi della "coverage" dell'NBA

Lo scorso anno LeBron James ha realizzato, con quello che poi è diventato il suo allenatore JJ Redick, un podcast dal titolo Mind the game. Il davvero gradevole prodotto aveva come editori Uninterrupted e ThreeFourTwo Productions . Pochi giorni fa, durante il Pat McAfee Show, la stella dei Lakers è tornata sull’argomento. Spiegando che l’iniziativa di parlare di tecnica e di tattica nasce come reazione a “una certa looseness con la quale si esercita la coverage del basket NBA”. Il secondo dei due termini evidenziati, ‘coverage’, indica la copertura mediatica, cioè l’attenzione che viene dedicata all’NBA dai media . Il primo, ‘looseness’, si può invece tradurre in almeno due modi: uno rimanda a ‘imprecisione’ e ‘inesattezza’, l’altro ha venature morali, rese da parole come ‘dissolutezza’, ‘sregolatezza’ e ‘lassismo’. Imprecisa o dissoluta che sia, la coverage NBA ha preso la palla al balzo e ha sottoposto le parole del Prescelto a una diffusa e circostanziata critica. L’effetto, anche se eventualmente non voluto, è stato quello di generare altra media coverage, vertente su come la media coverage stessa debba o non debba essere. Il “dibattito”, virgolette volute, si è naturalmente trasformato ipso facto in una guerra cibernetica di posizione tra due eserciti, divisi da trincee e guidati da generali che di quella media coverage sono sia soggetti sia oggetti. Il tutto, detto come puro rilievo cronistico, alla vigilia dei playoff e in coincidenza con il lancio della seconda stagione di Mind the Game . Non mi pare che si possano ignorare la circolarità e la pervasività di questo processo. Rispetto al quale, almeno se si partecipa alla media coverage di cui sopra, dichiararsi superiori o alieni è puerile. Essa è infatti un effetto, scontato, del passaggio dall’informazione di una volta a quella di oggi . Laddove per top-bottom intendo ‘io sacerdote mediatico scrivo/parlo e tu fruitore leggi/ascolti’, e per peer-to-peer l’applicazione del concetto di ‘uno vale uno’ alla capacità di informare su un dato tema. Sia ben chiaro che non c’è nulla del passato da mitizzare e nulla dell’attualità da demonizzare, anzi. Allo stesso tempo, però, neppure si possono ignorare cambiamenti di questa portata. I temi in oggetto rimandano infatti a un territorio davvero delicato. Ho ritenuto perciò doveroso metterli sul tavolo e… fermarmi qui. Perché se partecipassi alla ‘discussione’, pur essendo tentato, sarei davvero incoerente. Mi basta, e avanza, sottoporre la questione all’attenzione generale. Credo infatti che sia necessario limitarsi a cercare di leggere la realtà per fornirne la fotografia più fedele e più comprensibile possibile. Pur sapendo che si tratta di un obiettivo irraggiungibile, verso il quale si può al massimo tendere. Specie se si parla ‘a ruota libera’ . Sui limiti del linguaggio parlato, valgano le immortali parole di Italo Calvino sul concetto di ‘esattezza’. "Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvi? […] mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo quando sento parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario". Il punto, per chiudere, è semplice: per informarci, abbiamo tutti bisogno di punti di riferimento. Solo che siamo in mezzo a una lotta sempre più generalizzata per assicurarci il ruolo di punto di riferimento . La tentazione alla prova di forza che ne nasce, alimenta una media coverage sempre più impegnata a ritoccare le foto di una realtà che già di suo è difficilissimo mettere a fuoco. Il problema non è essere oggettivi . Bensì se, come società sempre più globale, vogliamo stringere un patto per provare a esserlo, tutti insieme. Ai posteri, più che mai, l’ardua sentenza.

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