Mensik ci ricorda che la scuola ceca è ancora un'istituzione

La Cecoslovacchia, come l’abbiamo chiamata fino alla caduta del Muro, produce da sempre giocatori dal talento raro, come se il gioco facesse parte del suo DNA, un’eredità silenziosa che da Drobný a Kodeš, da Lendl a Kvitová, fino al giovanissimo Jakub Menšík, continua a rifiorire. Come i mandorli lungo la Moldava, volendo poetizzare a tutti i costi. C’è qualcosa di tennistico nell’aria di Praga e Brno, un’eco lontana di palle colpite con grazia e ferocia, un’arte tramandata nei circoli di provincia, nei campi di terra battuta dove racchette economiche si impolverano di terra rossa. Il tennis da queste parti è stato a lungo un affare di stato. Nel rigore oscuro del socialismo reale, lo sport è un’arma in più, una dimostrazione di superiorità ideologica. I giovani vengono selezionati, allenati e alienati con metodo, trasformati in atleti dalla resistenza militare. Ivan Lendl ne è forse il massimo esempio, di sicuro il più pop: primo robot con la racchetta in mano, ingegnere del punto, scultore della fatica, antesignano del professionista moderno . Eppure, chi vuole la libertà spesso deve fuggire. Jaroslav Drobný, ad esempio. Campione diviso tra due mondi e alla fine senza patria, primo cecoslovacco a vincere Slam. Il suo paese nel dopoguerra si trasforma in una prigione ideologica, Drobný - spirito libero - se ne va. Nel ‘49, durante il torneo di Gstaad: Francia? Stati Uniti? No: lo accoglie l’Egitto. E così che nasce l’unico campione di Wimbledon con passaporto egiziano. Poco dopo di lui, anni ’60 e ’70, Jan Kodeš, che condivide con Drobny una bacheca da due Roland Garros e un Wimbledon. Coincidenze ceche. Anche Kodeš incarna le caratteristiche tipiche della genia: resistenza, disciplina e solidità intelligente. Poi certo, la più bella da vedere, oltre che la più coraggiosa di tutti: Martina. Navratilova decide di fuggire negli USA per rivendicare libertà e scelte di vita. I suoi genitori saranno costretti a varcare la frontiera per vederla vincere Wimbledon in TV: la sua partita non è trasmessa in patria in quanto lei è “atleta e persona non gradita”. La storia del già citato Lendl è analoga. Anni dopo cambia tutto: Berdych e Kvitová, cresciuti dopo la caduta del Muro, vivranno transizioni assai più morbide, senza rinunciare alla disciplina che rende la scuola ceca una delle più vincenti della storia. Un Paese di appena dieci milioni di abitanti che continua a sfornare campioni, tradizione che si autoalimenta. I ragazzi crescono con i poster di Lendl e Kvitová in camera, imparano presto a giocare d’anticipo, ad accettare la fatica, a lottare su ogni palla. Il sistema, un tempo statale, diventa privato, ma gli allenatori sono sempre gli stessi, con il loro sguardo severo e le loro sentenze: “Non serve colpire forte, serve colpire bene.” Per cui, mentre i vecchi maestri raccontano le gesta di Drobny ai più giovani, dalle nebbie di Prostejov spunta un ragazzo alto, con un diritto che pare disegnato da Chat GPT. Si chiama Jakub Menšík, ha appena 19 anni - quattro meno di Sinner! - e a Miami spacca il mondo. Passato e futuro si compenetrano. Lo sguardo da Learch della Famiglia Addams di Lendl, la fisicità statuaria di Berdych, il carattere di Kvitová. Un gran bella mescolanza dopo la caduta del comunismo, lo sport da quelle parti è rimasto un elemento fondamentale della cultura. I successi degli atleti storici ispirano nuove generazioni. Il sistema, pur adattandosi al modello occidentale, ha mantenuto il rigore e la qualità della formazione. E funziona.

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Mensik ci ricorda che la scuola ceca è ancora un'istituzione

Stefano Meloccaro