Da Spike Lee a LeBron James: dentro il mondo di Toney Douglas

L'INTERVISTA
Massimo Marianella

Massimo Marianella

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Il passato in NBA che non vuole considerare passato, il presente italiano a Varese che sta scoprendo assieme a tutte le sue difficoltà. Ha giocato con Curry, con James e col Gallo, è andato a pranzo con Spike Lee. Toney Douglas ha vissuto una vita tutt'altro che banale. E ha accettato di raccontarcela... 

Smart casual. È la definizione americana di un abbigliamento elegante, ma "rilassato" ed è l'immagine che mi è apparsa quando Toney Douglas si è presentato all’appuntamento. Un’immagine perfetta per quel contesto sia di portamento (completo sportivo verde oliva ben abbinato) che cestistica. Corridoio dei trofei di Masnago, le immagini alle pareti dei grandi di quella storia - da Morse a Meneghin, da Ossola al Poz - e lui, che di quella storia non è ancora parte, ma che ne ha alle spalle una personale comunque importante.

La carriera

Una Finale NBA, quasi 400 partite nel campionato dei sogni con 7 maglie diverse, ha dato del tu e degli assist a LeBron James ed è stato una delle speranze più concrete di ristrutturazione cestistica dei New York Knicks prima di decidere che era il momento di girare il mondo, sempre col pallone arancione sotto il braccio. “Ho vissuto un percorso di basket straordinario a tutti i livelli. È iniziata alla grande al college dove ho contribuito a riportare i Seminoles di Florida State al Torneo dopo 11 anni. Poi ho conosciuto i due livelli più alti di questo sport: prima l’NBA e poi l’Europa. Molto orgoglio quindi, ma per me la cosa più importante è che mi sono goduto ogni tappa e non ho sprecato, neanche a livello personale, nessun momento".

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©Getty

Il Draft

Tra i Pro è cominciata che non meglio non si poteva. Chiamata al primo giro del Draft 2009 e da una franchigia storica come i Lakers anche se il “profumo” della California è durato poco. “La notte prima non ho dormito un minuto. Avevo sostenuto dei workout con diverse franchigie, era andata bene e più di una mi aveva dato ottimi feedback, ma al momento delle chiamate non si sa mai quello che può accadere, quindi non avevo certezze. Durante il Draft poi non devi mai avere aspettative troppo positive e troppo negative, perché può succedere davvero di tutto. Essere stato scelto dai Lakers è stato un bel momento, ma sapevo a quel punto che sarei finito ai Knicks perché NY aveva pagato 3 milioni di dollari a LA per avermi. Andare ai Lakers sarebbe stato fantastico perché avevo seguito tutta la loro stagione precedente che si era conclusa con l’anello, e poi avrei giocato con Kobe... Ma al momento della chiamata sapevo che non sarebbe successo. Però sono finito a New York, che non era affatto male”.

Douglas e Gallinari esultano  durate una gara del 2010 al Madison Square Garden
©Getty

La Grande Mela

Già. New York, le luci di Manhattan e la gloriosa storia dei Knicks. “È la Mecca del basket e ci sono rimasto per 4 anni. È stato fantastico! È un’esperienza meravigliosa anche se in un momento storico difficile per la franchigia e quindi non vincente. Per giocare lì devi avere le spalle larghe, però è un’esperienza che ti fortifica per il resto della vita. Il pubblico è difficile, è vero. Ma se vede che dai il massimo ogni notte, soprattutto in difesa, ti ameranno per sempre. È una squadra sotto i riflettori anche in trasferta, calamita le attenzioni e questo è bello. Giocare al Madison Square Garden ti fa sentire parte di una storia importante. A livello personale poi mi ha permesso di conoscere tante celebrità e soprattutto di stringere un buon rapporto con Spike Lee".

Spike Lee in prima fila al Madison, con la maglia di Charles Oakley

A pranzo con Spike Lee

“Lui è un vero tifoso dei Knicks. Una volta quando siamo andati in trasferta a giocare a Miami contro gli Heat lui ci ha seguito e siamo andati a pranzo insieme. Wow! Mi sono detto ‘Sto andando a pranzo con Spike Lee!!!’. Ed è stato anche piacevolissimo perché abbiamo parlato di tutto: di basket, di vita, di cinema, di viaggi, di cultura. Uno splendido ricordo”.

 

Tifosi & fedeltà

Qui invece è stato catapultato in una realtà dove il senso di appartenenza e le rivalità contano più che in America. Qui in qualsiasi sport passare da un club all’altro per alcune maglie non è la stessa cosa e anche i giocatori lo avvertono: negli States il giocatore va dove può guadagnare qualche dollaro in più, indipendentemente dalla maglia o dalla città. “Difficile rispondere a questa domanda. Nella NBA tu puoi pensare di essere fedele a una franchigia e alla sua storia. Poi però, anche dopo qualche anno, se qualcosa va storto ti tagliano senza considerare minimamente la tua fedeltà. Quindi i giocatori hanno capito che devono fare i loro interessi perché le squadre sono le prime a fare altrettanto. Anche in America i tifosi a volte si chiedono perché un giocatore abbia fatto quella scelta andando magari in una squadra che amano poco, ma la risposta è che evidentemente le situazioni per quel giocatore erano migliori lì. La passione dei tifosi in Europa è diversa, qui se un giocatore dice di essere contento di passare da Varese a Cantù o da Cantù a Milano succede il finimondo”.

Toney Douglas e Massimo Bulleri (foto Pallacanestro Varese)

Ma esistono nella NBA davvero i tifosi? “Sono diversi dall’Europa, ma ci sono delle città e delle squadre NBA che hanno una base vera di supporter. Boston, New York, Toronto, Miami, ma per la mia esperienza Golden State ha i tifosi più straordinari. Io ho giocato lì e per me sono i numeri uno. Sono rimasti in blocco fedeli ai Warriors anche quando hanno avuto diverse stagioni perdenti prima dell’arrivo dei vari Curry, Thompson e Green. Per me essere un vero tifoso va al di là dei risultati e loro sono così”.

Douglas con Steph Curry. Toney ha giocato a Golden State 24 gare fra il giugno 2013 e il gennaio 2014
©Getty

L’anno che mi manca…

Tornando alla sua carriera, ha giocato quasi 400 partite nella NBA per 7 club diversi e quasi un terzo di queste in quintetto. La domanda è semplice: hai coronato, sorpassato o deluso il tuo sogno da bambino? “Io credo che la mia storia NBA non sia ancora un capitolo chiuso. Sono orgoglioso certo, ma nel momento in cui sono stato chiamato nella famosa notte del Draft ho detto a me stesso che avrei voluto giocare nella NBA 10 anni. Sono arrivato a 9 e sto lavorando in campionati importanti per mettermi nelle condizioni di tornare e completare il mio cerchio professionale. Credo di avere ancora qualcosa da dare a quel livello di basket".

Un computer chiamato LeBron

Una di queste tappe è stata Miami, dove è stato parte di una squadra che ha raggiunto le NBA Finals giocando con LeBron: “Gli Heat sono splendida organizzazione e giocare con LeBron ovviamente è un ricordo speciale. Lui è un giocatore incredibile, ma non solo per quello che fa durante una partita, ma per come si prepara. La cura che lui ha del suo fisico è assolutamente unica e lo scouting personale che ha di tutti gli altri giocatori assolutamente unico. Credo che se arrivasse qui a bordo campo a Masnago dopo pochi minuti avrebbe catalogato mentalmente tutte, ma proprio tutte le caratteristiche di ogni giocatore”.

 

Un mondo da scoprire

Toney Douglas ha viaggiato tanto. Ha giocato in Cina, Turchia, Spagna e Italia. Che tipo di esperienza è stata, hai assorbito un po’ delle varie culture? "Ho cercato di non sprecare nessun momento della mia vita. Tutto ha rappresentato una crescita. L’Europa l’ho scoperta meravigliosa e quella prima in Cina è stata una grande esperienza. Per me era la prima volta fuori dagli Stati Uniti ed è stato un impatto forte. Con questo non voglio dire che sono poveri o che vivono un’esistenza diversa, ma su di me è stato un momento che ha avuto un impatto”.

Douglas sulla Grande Muraglia con Klay Thompson e Harrison Barnes durante i Global Games NBA del 2013
©Getty

Il senso della vittoria

Una grande carriera, ma alla fine ha vinto un solo trofeo: la Coppa di Turchia. È un rimpianto, una delusione? “Beh alla fine si gioca per vincere e sollevare dei trofei, ma non vincere delle medaglie non porta direttamente alla conclusione che è stato un fallimento. Io la vedo e la vivo così. Non tutte le vittorie sono rappresentate da un trofeo”.

Toney Douglas Varese

L’Italia e Varese

Ora il presente è a Varese, un luogo che evoca tanta storia di basket importante e vincente che un pochino si vede dai trofei e dalle foto che lo accompagnano ogni volta che va in campo o negli spogliatoi. “Una storia che conosco, che vedo e della quale sono orgoglio di fare parte. Il mio rimpianto è che la situazione che stiamo vivendo non mi permette di toccare con mano il calore dei tifosi quando il palazzetto qui a Masnago è pieno per le grandi partite. L’amore dei tifosi l’ho testimoniato, ma il palazzetto pieno purtroppo ancora no”. L’Italia? “L’Italia è bellissima, la gente gentilissima, il cibo buonissimo e sto cercando di approfondire un pochino anche la storia del vostro Paese, ma sono arrivato da poco quindi ci sono ancora tante cose che devo scoprire. Sto provando piano piano anche a imparare qualche parola della vostra lingua. Una cosa invece non mi ha disturbato: la disinvoltura alla guida. Mi avevano messo in guardia quando sono arrivato, ma si sono dimenticati che ho vissuto in Turchia e New York. Quindi…”. In queste settimane però il problema non è certo il traffico o la lingua. Usando la pressione come motivazione, deve sfruttare tutta la sua esperienza per rimettere in carreggiata la sua realtà personale a Varese e la classifica della squadra di Bulleri.

Toney Douglas e Massimo Marianella durante l'intervista