Aldo Corno: "In Mozambico ho riscoperto la gioia del basket. Esperienza indimenticabile"

E’ tornato da circa un mese dalla sua esperienza in Mozambico, e ancora ha negli occhi e nel cuore l’esperienza vissuta. “Ci sono cose che mi porterò dentro tutta la vita”, è la frase che Aldo Corno ha ripetuto più spesso nell’arco di tutta l’intervista. L’allenatore romano, ormai adottato da Como dove ha scritto pagine importanti della storia del basket femminile, era partito lo scorso 26 settembre, per raggiungere Simone Santi, nipote di Dante - primo allenatore proprio di Corno - e dare il suo contributo all’associazione Colors, nata proprio da un’idea di Simone che, dalle periferie romane, è arrivato fino in Mozambico per regalare speranza ai bambini di Maputo grazie allo sport: “Un progetto che muove dai 600 agli 800 tra bambini e bambine, e diversi centri in giro per i quartieri più poveri della città”. Partiti 15 anni fa con le ragazze dell’orfanotrofio, nasce la Lazio Basket Maputo. La squadra è arrivata in Serie A mozambicana, e il sogno per la stagione appena conclusa era arrivare tra le prime tre, intanto, e poi magari un giorno vincere il titolo. “E’ stata una chiamata alla quale non ho potuto dire di no, mi è stato chiesto di andare in Mozambico e fare quello che mi riesce meglio, fare l’allenatore di basket. – ha detto Corno – Non ero mai stato in Africa, e oltretutto il progetto, targato Lazio Basket, mi ha riportato alle origini, io ho iniziato la mia carriera proprio alla Lazio. Era un segno. Le ragazze non hanno mai avuto un allenatore professionista. Ho conosciuto il loro, una persona squisita che di mestiere fa il finanziere e le atlete vincono una borsa di studio che permette loro di entrare in squadra. E’ un mondo dilettantistico, e la mia presenza doveva servire a farle crescere, per quanto possibile in pochi allenamenti”. Quel famoso legado, quel lascito da regalare al prossimo, Aldo Corno avrebbe potuto darlo così: insegnando basket. “Sono stato lì 45 giorni, per i playoff. Le prime 8 squadre dei tre campionati, quello del nord, quello del centro e quello del sud, giocano la fase finale a Maputo, tutte in un'unica città perché il Mozambico è talmente grande che le trasferte sarebbero troppo impegnative e richiederebbero giorni di viaggio. Quest’anno si sono anche inventati una formula diversa, con andata e ritorno, quindi 14 partite in 16 giorni. Pensavo fosse uno scherzo! In più hanno deciso di giocare 48 minuti, stile NBA. Sono sicuro che le nostre ragazze si sarebbero ritirate alla prima! – ride scherzando - Non per cattiveria ma il dispendio di energie è folle, tante partite in poco tempo con un ritmo davvero molto alto. Ma le ragazze non hanno fiatato, hanno giocato con il sorriso dalla prima all’ultima partita”. Un campionato che ha sorpreso anche l’allenatore, soprattutto per fisicità e atletismo: “Le prime due squadre secondo me se la giocano tranquillamente con le prime sei della nostra serie A. Il livello fisico è davvero molto alto, inoltre corrono molto. Insomma, un campionato di buonissimo livello. Noi abbiamo vinto 10 partite su 14, abbiamo perso solo con le prime due che devo dire erano davvero ben strutturate, con allenatori professionisti, uno spagnolo e un portoghese, e con quasi tutta la nazionale del Mozambico al completo, mentre noi eravamo una squadra composta da ragazze dell’orfanotrofio”. Un gruppo eterogeneo, dai 18 ai 33 anni – le ragazzine prima sono impegnate con le giovanili – quasi tutte passate dai vari orfanotrofi della zona, con storie di vita delicate e spesso difficili anche da raccontare. “Regina, la vecchia capitana, quest’anno cambiata perché è arrivata una ragazza leggermente più grande di lei, ha iniziato da bambina, aveva 12 anni. – racconta Corno con emozione - Lei è l’esempio della continuità di questo gruppo ed è l’emblema di questo progetto. Lì non si possono adottare le bambine dal punto di vista pratico, però diciamo che Regina è cresciuta come se fosse figlia di Simone. Per ogni storia bisognerebbe scrivere un libro. C’è poi anche chi è riuscita a costruirsi una famiglia. La cosa bellisisma era che durante gli allenamenti o le partite, si portavano i bimbi in panchina, qualcuna allattava. Una cosa stupenda e toccante, un’esperienza che da noi non sarebbe possibile”. La voce tradisce una certa commozione, nonostante l’uomo tutto d’un pezzo che Aldo Corno dice di essere. “Si, sono un tipo abbastanza duro dal punto di vista caratteriale, ma lì ho iniziato a sciogliermi fin dall’arrivo. Ho vissuto tante cose, come i rientri dalle vittorie di Coppe Campioni con i tifosi che ti fanno la festa. Ma quello che ho vissuto lì è stato impagabile. Dopo 20 ore di viaggio davvero interminabile, siamo arrivati, e Josè, il presidente, una persona stupenda, mi stava aspettando all’arrivo. Lui è il ‘fratello di lavoro’ di Simone, il suo commercialista, una persona che Simone ha formato e diventata con il tempo indispensabile. Josè mi ha accolto e mi ha portato nell’androne dell’aeroporto dove c’era Simone, che ho abbracciato perché l’ho rivisto dopo tanti anni. All’improvviso ho visto arrivare tutta la squadra al completo con i fiori per mia moglie, tutte che ballavano e cantavano le loro tradizionali canzoni locali. Lì si è sciolta subito mia moglie, io invece ho resistito perché ho pensato che me lo sarei anche potuto aspettare. – sorride - E invece poi quando siamo usciti dall’aeroporto e abbiamo girato l’angolo, ci siamo trovati davanti a 100 bambini e bambine dei vari centri, dai 6 ai 12 anni, che ci salutavano e ci abbracciavano. Lì devo dire la verità ho fatto fatica anche io. Era l’accoglienza ad una persona che era arrivata per dare loro una mano. Percepivi la loro gioia, una gioia viva, che mi ricorderò per tutta la vita. Una gioia non da ridere”. Lo dice con gli occhi lucidi, e con la consapevolezza che questa esperienza, iniziata con il basket, ha preso fin da subito una piega molto diversa. E’ stata un’esperienza di vita. “Lì fanno tutto con il cuore, nel vero senso del termine, giocano per piacere e l’entusiasmo è tangibile. Mi ha riportato un po’ alla pallacanestro di una volta, quando giocavamo dove e quando riuscivamo solo per il piacere di farlo. E poi ogni tanto arrivavano poco allegre, magari era successo qualcosa, erano comunque ragazze senza famiglia, che vivevano situazioni impegnative una volta uscite dall’orfanotrofio. E lì bisogna avere la sensibilità di capire che non si possono forzare certi tipi di situazioni, non ci si può arrabbiare. E’ stata per me un’esperienza formativa”. E oltre all’aspetto emotivo, c’era tutta la parte pratica da gestire in campo. Per comunicare è bastata qualche parola di portoghese, soprattutto scritto e con l’aiuto di Simone Santi, e un po’ di inglese, grazie alla capitana, una delle poche che ha avuto la fortuna di giocare in Spagna e in Portogallo, arrivando anche in nazionale. Ma soprattutto la gestione tecnica e tattica che è stata inizialmente lo scoglio più difficile da superare. “Innanzitutto, facevamo allenamento all’aperto, nel campo costruito nel primo orfanotrofio. Intorno c’erano una marea di bimbi proprio del centro che entravano in campo. Un’atmosfera bella e pesante al tempo stesso. E poi il terreno era scivolosissimo, c’era polvere e vento, le ragazze cadevano e si rialzavano in continuazione. Ma soprattutto nelle prime settimane negli occhi delle ragazze ho visto una grossa difficoltà a venirmi dietro. Loro giocano un basket molto diverso, giocano a 200 all’ora, la prima che prende la palla corre, va dall’altra parte e tira, e fanno così, avanti e indietro per tutta la partita. Le prime due squadre del campionato invece giocavano a basket con i loro schemi, la difesa a zona. Ho provato a spiegare loro che così non potevamo farcela e che dovevano entrare in un sistema di gioco minimo, un paio di attacchi all’uomo, un attacco alla zona, che non sapevano neanche cosa fosse. E qundi sono entrate in difficoltà enorme, gli stava scoppiando la testa, non ricordavano gli schemi, stavo in un certo senso snaturando il loro basket”. Distruggere, per ricostruire, in poco tempo e con un gruppo di ragazze delle quali bisognava prima di tutto ottenere la fiducia. “Le ho rassicurate, ‘coraggio, vedrete che con il passare delle partite ce la faremo’, dicevo loro. E alla fine ce l’hanno fatta, dopo 3 o 4 setimane hanno cominciato a venirmi dietro. E quando facevano un’azione e magari lo schema riusciva, si giravano incredule a guardarmi come a dire ‘allora quello che ci dici è vero!’. Io poi gli indicavo sempre con il dito la testa. Perché dicevo loro che per vincere servono le gambe, il cuore ma serve soprattutto la testa. E’ stato anche il saluto che mi hanno fatto quando sono partito, erano tutte quante con il dito che indicava la testa! Per dirmi ‘questa l’abbiamo capita!’. Però mi hanno accettato dal primo minuto. E io sono andato lì cercando di far capire loro che nonostante la mia enorme esperienza, ero lì solo per dare loro una mano, dei piccoli suggerimenti, non di certo per cambiare il mondo. Lì devi andare con la massima umiltà perché loro vivono cose che noi non ci immaginiamo neanche. E quel dito sulla testa credo sia stata la mia vittoria più grande". Oltre ad aver contribuito a realizzare il loro sogno, quello di vincere una medaglia. “Lì le prime tre classificate salgono sul podio, prendono la medaglia, come alle Olimpiadi. Noi siamo arrivate terze, quindi medaglia di bronzo. Per loro è stato il massimo, avevano raggiunto un sogno. E dalla gioia mi hanno anche lanciato per aria, non me lo aspettavo proprio. L’ultima volta era successo alla mia prima Coppa dei Campioni vinta, ma già alla seconda o terza non ti ci buttano più. Loro invece lo hanno fatto semplicemente per un terzo posto in campionato, un bronzo che per loro ha un significato enorme. Quel gesto mi ha ripagato di tutto”. Dopo aver scritto pagine indelebili della pallacanestro femminile italiana, Aldo Corno, il tecnico più titolato del basket in rosa, ne ha scritta un’altra, contribuendo ad un progetto che va al di là dell’aspetto sportivo. E ora che succede? “Ho assolutamente chiuso la parentesi pallacanestro italiana, questo lo posso dire con certezza! - afferma Corno con estrema serenità - mentre quella del Mozambico è una porta semi aperta. La federazione mozambicana mi ha chiesto se potesse interessarmi il ruolo di allenatore della nazionale, - ride - ma è un impegno che alla mia età è eccessivo. Però quando ero lì ho tenuto una lezione per gli allenatori locali, perché loro non hanno allenatori professionisti e non esistono corsi, vanno su internet, leggono libri, si formano così. E allora mi hanno chiesto se sarei tornato una decina di giorni per tenere un vero e proprio corso. Diciamo che ci sto pensando seriamente...”. Intanto per ora si gode un po’ di riposo, e la consapevolezza di aver fatto qualcosa di importante.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Aldo Corno: "In Mozambico ho riscoperto la gioia del basket. Esperienza indimenticabile"

Andrea Colnago