Olivier Giroud, biografia e carriera di un giocatore di culto

Calcio

Tommaso Giagni (in collaborazione con "l'Ultimo Uomo")

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Fra le gare di Europa League in diretta su Sky Sport c'è anche Arsenal-Stella Rossa. I Gunners di Olivier Giroud: la storia e il culto di uno dei centravanti più divertenti del calcio Europeo, che di recente ha vinto il Puscas Awards

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È il centravanti titolare della Francia che si avvicina ai Mondiali 2018, una Nazionale con una problematica abbondanza di scelta. Alla sesta stagione di Arsenal, si direbbe essersi ritagliato un ruolo da salvatore della patria. L'attaccante esperto che toglie le castagne dal fuoco grazie al mestiere. L'attaccante da sfruttare in Europa per il suo respiro internazionale. Spezzoni finali in campionato, punto fermo in EL. Fiducia senza troppe pressioni. Un ruolo tutto sommato invidiabile. E voluto fortemente, se pensiamo che la scorsa estate era negli uffici dell'Everton e solo all'ultimo momento ha fatto saltare il trasferimento.

Poche settimane prima di compiere 24 anni, non aveva ancora presenze in Ligue 1 e aveva giocato solo due volte fuori dalla Francia: andata e ritorno dei preliminari di Europa League, il suo Montpellier eliminato dagli ungheresi di Győr. Non era mai stato convocato dai Bleus, a nessun livello. Ci si era avvicinato con una pre-selezione in U-16 ma andò male: «Ero troppo gentile. Troppo cerebrale. Il calcio è la giungla».

Uno che ha avuto bisogno, ogni tanto, «di essere preso a calci in culo». Un late bloomer che oggi, a trentun anni, sembra essere arrivato al massimo cui poteva aspirare e che al tempo stesso non si crogiola: «So da dove vengo».

Con i due figli, sul campo dell'Emirates, alla fine della stagione scorsa

La crescita, l’esplosione, la patina del culto

Olivier Giroud è uno di quei giocatori che da giovani non esaltano i tifosi e nell'ultimo segmento di carriera diventano beniamini, se non oggetti di culto. Gli affidabili che non sono campioni. Magari poco convenzionali, fuori dal campo o nello stile di gioco.

Quelli che a fari bassi sfondano quota 100 reti con la stessa maglia e raggiungono una leggenda come Dennis Bergkamp. Quelli che vincono il FIFA Puskás Award con un colpo dello scorpione che, dice Giroud, «ricorda la figura di una coreografia di quelle che all'università provavo al corso di Danza».

È stato un giovane errante. Da Grenoble a Istres, fino a Tours. Via via, sempre più lontano da casa. Perché è nato a Chambéry (30 settembre 1986) ma è cresciuto al di là delle Prealpi della Chartreuse, nel paesino di Froges, duemila abitanti nella regione dell'Auvergne-Rhône-Alpes.

Comincia nel paese, da adolescente viene integrato nel Grenoble, a venti chilometri da casa. Se ne  va per lo scarso feeling con l'allenatore della prima squadra, Mehmed Baždarević, che oggi è CT della Bosnia e all'epoca sosteneva che Giroud non fosse neanche all'altezza della Ligue 2.

Due fratelli maggiori, lui che a casa era soprannominato Chaussette (“Calzino”, in omaggio al lupo di Balla coi lupi) e una sorella abbastanza esasperata da volergli bucare il pallone.

Il calciatore della famiglia in realtà doveva essere Romain, difensore. «Era conosciuto, nella regione. Mi inorgogliva molto dire che fossi suo fratello» dice Olivier. Romain incrociò sui campi giovanili Henry e Trézéguet, passò per il centro formativo dell'Auxerre, ma non andò mai oltre il potenziale. C'è un Giroud che prometteva e ora fa il dietologo, c'è un Giroud che è esploso quando sembrava tardi.

A Montpellier e nel massimo campionato francese arriva da fresco capocannoniere della serie cadetta. Con la fame di chi vuole recuperare il tempo perduto: «Il mio obiettivo è firmare con una squadra di Ligue 1. Quale, importa poco» spiegava pochi mesi prima.

Durante gli anni nelle serie inferiori (l'Istres militava addirittura nel terzo livello del calcio francese), Giroud si adagia: «Quando sei sicuro del posto, rischi di lasciarti andare» ammetterà. Le persone vicine lo invitano a darsi una scossa: si sta compiacendo della sua bellezza e delle sue capacità, gioca con poca concentrazione. A lui in quel periodo tornano in mente le parole del suo primo allenatore a Grenoble: «Giocherai meglio quando ti taglierai i capelli».

Curioso che l'unico titolo nazionale l'abbia vinto con il Montpellier. Da capocannoniere del torneo (21 reti) e da piccola stella di una squadra che puntava poco sulle individualità. Gli occitani erano outsider assoluti, venivano da un quattordicesimo posto, per loro era la prima Ligue 1 in quasi cent'anni di storia.

Giroud ricorda che in quei mesi il tecnico René Girard gli insegnava a forzarsi, andare contro i propri desideri, per migliorare. Arrivò a prenderlo a calci nel sedere, «per farmi diventare più costante».

Un francese medio, una persona positiva

A vent'anni i suoi modelli erano Shevchenko e Ibrahimovic, per la loro completezza. A ventidue, una leggenda del Montpellier come Laurent Blanc lo portava da CT in nazionale, per l'atipicità della sua mole e la capacità di giocare da pivot. “Una ricompensa” diceva. In effetti Giroud non era che un giovane attaccante di provincia, e neanche tanto giovane.

Ingeneroso forse ridurlo a un pivot. Mancino, potente, generoso. Brillante e poco prevedibile nelle soluzioni laddove corre invece il rischio di impantanarsi nella macchinosità. Più in generale, Giroud ha imparato a gestire i limiti e a provocare cortocircuiti tra caratteristiche di partenza e risultati finali. Pesante eppure acrobatico. 192 centimetri, eppure non specializzato nel gioco aereo. Classico centravanti d'area per fisicità, eppure mai scontato grazie a una certa creatività.

Lui stesso ha abbinato alcune caratteristiche alle esperienze fatte lungo il percorso. I movimenti verso la porta, il disegno di “false piste sulla superficie”, li ha imparati da Daniel Sanchez, il suo allenatore a Tours (dove peraltro giocava insieme a un altro gunner, Koscielny). A Wenger e alla sua insistenza deve il lavoro sulla tecnica individuale. Agli anni nel calcio inglese, la crescita nel gioco spalle alla porta.

Di recente Giroud si è detto «ossessionato dalle statistiche. Solo i numeri, restano». Andarle a leggere fa scoprire un attaccante che non è un goleador ma in stagione supera sempre le quindici reti. Un attaccante psicologicamente equilibrato, capace di entrare bene a partita in corso, senza subire contraccolpi dall'esclusione iniziale.

Finale di Euro 2016. Estensibile, vorace

Sul braccio sinistro, la croce, tra gli altri simboli. Sul braccio destro, il primo versetto del Salmo 22: “Dominus Regit Me Et Nihil Mihi Deerit”. Il Signore mi governa, non mi mancherà nulla.

La fede cattolica è uno degli elementi-chiave per conoscerlo. “Il mio lato mistico” lo chiama. All'ingresso in campo dice una piccola preghiera. Lettore appassionato della Bibbia, dice di trascorrere «ogni tanto un momento con Gesù: mi mette di buonumore, mi fa affrontare la giornata con lo smile, mi permette di relativizzare molte cose».

Si definisce una persona decisamente positiva. E riconosce di avere un buon equilibrio: «Da giovane ho incrociato ragazzi più forti di me, che però non avevano testa. Il calcio è anche questo: farsi male, incassare, maturare».

Il diploma Economico-Sociale e il percorso universitario poi interrotto allo STEPS (Scienze e tecniche delle attività fisiche e sportive) lo rendono un'eccezione nel mondo del calcio e in particolare della nazionale francese, notava Le Figaro alcuni mesi fa.

Al tempo stesso Giroud tiene, dichiaratamente, a scarabocchiare l'immagine leccata del ragazzo di buona famiglia: «Non voglio essere associato ai petits-bourgeois, non sono così. Sono un francese medio che ha fatto le sue cazzate».

L’Arsenal, la Francia

Giocare nel campionato inglese è stato un sogno fin dall'adolescenza. Quest'anno ha dichiarato di puntare a vincerlo, insieme all'Europa League, con l'Arsenal. La società che gli ha dato fiducia e gli ha permesso di compiere il grande salto.

Appena arrivato, per 12 milioni, Giroud si smarca dai paragoni col suo predecessore: «Non sono Van Persie». Nelle prime settimane non trova la rete, le statistiche devono angosciarlo. E per una di quelle casualità che lui direbbe governate dall'alto, il suo esordio in Champions League è proprio contro il Montpellier, allo Stade de la Mosson. Nel doppio confronto del girone, non segna ma serve un assist all'andata e due al ritorno. Al termine di quella stagione troverà numeri rasserenanti e si dimostrerà prezioso al servizio della squadra (17 reti, 12 assist).

L'altro sogno è vincere un grande trofeo con la nazionale francese. Lui collega alla volontà divina ogni cosa: ogni passaggio è impastoiato in un'unica visione onnicomprensiva. Anche la necessità di allontanarsi da casa per diventare un calciatore: “Se ho dovuto lasciare Grenoble per farmi le ossa, forse la strada era segnata, e il Cielo farà in modo che potrò realizzare il mio sogno”.

Nel frattempo ogni mattina, mentre si fa la barba, pensa al 15 luglio 2018. La data della finale dei Mondiali, il giorno dopo l'anniversario della presa della Bastiglia. Guiderà l'attacco, in Russia, a meno di un clamoroso ritorno di Benzema. Sulla rivalità tra i due, i media francesi insistono da tempo (e il centravanti del Real rinfocola di tanto in tanto la questione). Pochi giorni fa, comunque, Giroud lo ha scavalcato nel numero di reti con la maglia dei Bleus. Restano solo i numeri, d'altronde.

Per chi è sbocciato tardi, il tempo è un nemico più che per altri. Non a caso lui, già a trentun anni, si è sentito di lanciare la sfida per la “9” della nazionale ai più giovani: “Voglio rendergli difficile il compito. Dovranno venire a prendersi il testimone. Allora glielo passerò con piacere”.