Italia, e ora? Così reagirono Francia e Germania: riforme, giovani e stranieri

Calcio

Francesco Giambertone

La Nazionale francese campione del mondo nel 1998 e quella tedesca nel 2014 (Foto Getty)

Dopo 60 anni non andremo al Mondiale, una tragedia sportiva con diversi precedenti: dopo il 1958 in Italia si diede meno spazio agli oriundi, in Francia e Germania dopo le grandi delusioni si è puntato sui settori giovanili e l'integrazione. Con un'idea anche dalla Gran Bretagna

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Ci eravamo già passati, 60 anni fa. Niente Mondiale e un unico pensiero: cambiare tutto e rifondare il calcio italiano. Sì, ma come? Nel 1958, certo un'altra epoca, non cambiò molto. Quella che fallì la qualificazione al Mondiale svedese era già “la Nazionale degli oriundi”, che pure nell'Italia c'erano sempre stati: 5 quando vincemmo nel 1934, uno quando ci ripetemmo nel 1938. Eppure furono loro a pagare più di altri, anche se in modo non ufficiale, la figuraccia del '58 e l'eliminazione del 1962 dai Mondiali in Cile, al primo turno: da allora per 44 anni nessun oriundo fu più convocato dall'Italia in un Mondiale fino a Mauro Camoranesi, campione del mondo nel 2006. Servì? Difficile dire di sì, ma in qualche modo ripartimmo. Oggi come 60 anni fa ci si aspetta una svolta nel sistema-calcio per ricominciare. Magari con riforme più profonde, come hanno fatto in Francia e in Germania dopo i più grandi disastri della loro storia calcistica. Chissà che le loro ricette non ci diano qualche buona idea.

Francia, il modello Clairefontaine e la Nazionale "tricolore"

Il calcio francese è morto e risorto almeno tre volte. La prima rinascita arrivò con le idee di un commissario tecnico, Michel Hidalgo, diventato un monumento nazionale nei suoi 8 anni in panchina dal '76 all'84: con una generazione di grandi giocatori capitanati da un fuoriclasse come Michel Platini, il calcio offensivo di Hidalgo portò in Francia un titolo europeo nel 1984, in mezzo a due semifinali Mondiali in Spagna e Messico, dopo oltre un decennio di flop in serie. Fu l'apice di una generazione di talenti, tra i quali Rocheteau, Trésor, Giresse, Fernanàndez, che abbandonò tutta insieme, senza che ci fosse un ricambio. E così, un po' come questa Italia, chi venne dopo non era pronto: tra l'88 e il '94 la Francia non andò ai Mondiali, saltò un Europeo e da un altro uscì al primo turno. Ma in mezzo a queste disfatte mise le basi per il futuro con una riforma lungimirante che avrebbe dato i suoi frutti una decina d'anni dopo: nel 1987 fu inaugurato il Centro tecnico federale di Clairefontaine, voluto dal presidente Sastre e gestito direttamente dalla Federazione, dove i migliori ragazzini tra i 13 e i 15 anni residenti nella zona di Parigi vengono allenati sulla tecnica, la tattica e l'educazione dentro e fuori dal campo, per due anni super intensi. Qui sono sbocciati i talenti di Henry, Gallas, Anelka, Saha, Diaby, Matuidi, e di recente un certo Kylian Mbappé.

Negli altri centri costruiti in tutte le zone del Paese si fa lo stesso, tenendo i giovani vicini alle loro famiglie, e si continua a investire: circa 30 milioni di euro negli ultimi 13 anni. I risultati? Il 20% dei giocatori usciti dai centri federali diventa professionista, la metà in Ligue 1. Oggi la Francia, finalista agli Europei lo scorso anno, è una delle favorite per il titolo in Russia grazie a una schiera di enfant prodige nati negli anni Novanta che sanno giocare a pallone come pochi altri. Una Nazionale che vent'anni fa ha fatto dell'immigrazione una risorsa: la “generazione d'oro” di Zidane Thuram era anche la prima “black, blanc, beur”, resa grande anche dai figli degli immigrati arrivati dalle ex colonie. Con quella squadra “nera, bianca e araba” il ct Aimé Jacquet vinse il Mondiale del '98, il successore Lemerre l'Europeo del 2000.

La rivoluzione tedesca: i settori giovanili e gli stranieri

Mentre la Francia ci batteva al golden gol con Trezeguet, la Germania meditava su come rinascere dopo il proprio fallimento. Loro che al Mondiale ci sono sempre andati hanno vissuto il dramma nazionale proprio in quell'Europeo in Belgio, eliminati ai gironi con un punto in tre partite contro Romania, Inghilterra e Portogallo. Era il preludio di un cambiamento epocale, che nel 2014 avrebbe riportato la Coppa in Germania dopo un secondo e due terzi posti iridati. La Dfb, la Federcalcio tedesca, nel 2001 stravolse i settori giovanili: obbligò le società di Bundesliga e Bundesliga 2 a dotarsi di una squadra in tutte le categorie a partire dagli under 12, pena la revoca della licenza. E dall'under 16 in poi in ogni rosa dovevano esserci almeno 12 potenziali nazionali. Sulla scia di quella francese, la federazione tedesca ha costruito 366 centri federali per ragazzini tra gli 11 e i 14 anni, tutti vicino casa (anche qui, i bambini vengono lasciati crescere in famiglia). Si punta tantissimo sulla tecnica individuale e un po' sulla tattica, non il contrario. I più bravi accedono in uno dei 45 centri di eccellenza dove proseguono la formazione tra i 15 e 18 anni. E così il calcio tedesco continua a produrre talenti a raffica.

A pensare questa riforma fu Berti Vogts nel 1998, lo stesso ct che aprì le porte della Nazionale ai tedeschi di seconda generazione: “La nostra squadra - annunciò - sarà multiculturale: chi ha un passaporto tedesco sarà convocabile. Da un punto di vista legale non è vietato, e sul piano sportivo è necessario”. Venne pian piano il tempo di Ozil, Khedira, Gundogan e Emre Can, tutti di origini turche, di Boateng, per metà ghanese, e di Mustafi, di origini albanesi, ma anche di Sané, figlio di un calcatore senegalese, e dei polacchi Klose e Podolski, diventati eroi nella loro seconda patria.

La proposta inglese: meno squadre e britannici "tutelati"

Chi come noi non se la passa bene ormai da tempo è l'Inghilterra, dove pur avendo il campionato più ricco (la Premier League ha ricavato per 5,8 miliardi di euro la scorsa stagione) la Nazionale non vince un Mondiale da 61 anni e non supera i quarti di finale dal 1990. In mezzo, la mancata qualificazione a Usa 1994 e agli Europei del 2008. Loro in Russia ci andranno, con diversi giovani campioni – Dele Alli e Harry Kane su tutti – eppure sono in molti a credere che nemmeno loro riusciranno a portare a casa un trofeo, come la “golden generation” di Gerrard e Lampard, mai vincente coi Tre Leoni. Anzi, c'è chi vorrebbe una riforma profonda del campionato inglese, più prolifico per le casse dei club che per il movimento britannico. Cinque ex manager della Nazionale come Graham Taylor, Glenn Hoddle, Kevin Keegan, Sven-Göran Eriksson e Steve McClaren hanno firmato una lettera indirizzata al presidente della Football Association. Chiedono un campionato da 18 squadre (nel 1993 erano 22) e di aumentare fino a 12 il numero minimo di calciatori inglesi per ogni rosa entro il 2020, dagli 8 attuali. Dicono che “i calciatori inglesi occupano solo il 32% del tempo di gioco del campionato, mentre nel 1995 arrivavano al 70%. Senza una riforma non vinceremo mai i Mondiali”. Ma almeno il ticket per Mosca loro ce l'hanno.