Rivera '69: un Pallone d'Oro per un ragazzo d'oro

Millenovecentosessantanove. Cartoline a valanga da una stagione cruciale. L'uomo sulla Luna, la Primavera di Praga, in Italia la strage di Piazza Fontana, l'autunno caldo degli operai. E poi Woodstock, Nixon alla Casa Bianca, l'ultima esibizione live dei Beatles sul tetto londinese della Apple. E ancora, 55 anni fa il Milan si prendeva il mondo, la Fiorentina lo scudetto, Gigi Riva il titolo di capocannoniere, Eddy Mercks, dominando il Tour, diventava 'il Cannibale', mentre Pelé fermava una guerra, quella civile tra Biafra e Nigeria, armi deposte per godersi il brasiliano in amichevole. Il '69, la stagione in cui tutto, o quasi, sembrava prendere un'altra direzione. Un passo, uno solo, e la fantascienza profumava di realtà. Come certe intuizioni cartesiane di Gianni Rivera, 'il Golden Boy', 'l'Abatino', "Il campione ferocemente perbene" , che a 26 anni, in quell'anno 'spaziale', conquistava il Pallone d'Oro, lasciandosi alle spalle Riva, Gerd Muller e Johan Cruijff, con France Football ad accarezzarne il genio con parole ispirate: "In un calcio arido, persino cattivo, con troppi dubbi di doping, con troppi premi a deformare la verità, Rivera è il solo a dare un senso di poesia a questo sport". Giudizio che avrebbe fieramente resistito a tutto, epoche, mode, imitazioni, in pochi, come il Mito milanista, sono stati pietra di paragone obbligata per i tanti che hanno provato, invano, ad eguagliarne la sublime raffinatezza. "Questo Rivera è davvero un fenomeno - scolpiva allora Enzo Biagi - riunisce nella stessa persona le virtù dello stinco e le capacità della mente". E ancora oggi resta saldamente lassù, nella top class, tra i fantasisti geometrici, i registi goleador , i virtuosi del ricamo, gli artisti col senso stilistico incorporato. "Rivera si cibava di percorsi che sfuggivano all'umana comprensione - ricorda Roberto Beccantini nel suo libro 'Giocati da Dio' - Cresciuto alla scuola di Juan Alberto Schiaffino cercava la profondità, o comunque una 'certa' atmosfera". Una diversità, la sua, talmente sfacciata, scomoda, ingombrante, da risultare persino indigesta, nelle sue stagioni ruggenti, ad una parte della critica dominante. Perché Rivera, talento precocissimo, a neppure 16 anni già in serie A, a 19 il primo scudetto e la Nazionale, disponeva di piedi divini e testa da disobbediente, e infatti sull'erba affrescava, fuori stravolgeva. Stile e stiletto, ma con classe suprema, anche quando picconava il sistema con la sua dialettica al cianuro. "Nel mio mestiere - spiegava - a stancarsi di più è il cervello, non le gambe. Sbagliano di grosso quelli che pensano che siamo tutti zoticoni perchè non abbiamo studiato. Se uno è stupido, credetemi, non può fare il calciatore". Rivera detestava il 'Catenaccio', gli arbitri primattori, i critici prevenuti, quelli troppo influenti, le istituzioni arroganti. E grazie al suo conflitto a distanza con Gianni Brera ,dissidio tecnico, ideologico, i giocatori sono diventati adulti, si sono conquistati il diritto di pensare. E' stato Rivera, tra i fondatori del sindacato di categoria, a creare la figura del professionista che discute, impone scelte, posizioni, partecipa al dibattito sociale. Con lui il movimento si emancipo' in modo definitivo. E in quell'irripetibile '69 il 'Golden Boy' fu anche capace di issare il Milan in cima all'Europa, al mondo, prima demolendo l'Ajax di Cruijff, poi conquistando l'Intercontinentale nella sanguinosa doppia sfida con l'Estudiantes, con il trofeo consegnato addirittura negli spogliatoi per il clima divenuto irrespirabile. Un trofeo che in bacheca porta ancora le ammaccature provocategli dal lancio di Rivera, furibondo per la caccia all'uomo scatenata dai sudamericani,con Nestor Combin semisvenuto, col naso fratturato, persino incarcerato per diserzione. Quel Milan era figlio di un progetto serio, una squadra costruita pezzo dopo pezzo, a forte vocazione offensiva, con Rocco dominus ovunque, con il 'Riverismo' al massimo del suo fulgore. Anche se poi, negli anni successivi, sarebbero arrivati altri squilli: il celebre lampo all'Azteca nella 'partita del secolo', il terzo scudetto a 36 anni, dopo venti di carriera, a dare forma definitiva alla mitologica grandezza di Rivera. E a stabilire una volta per tutte l'inconsistenza di quelle antiche critiche attorno alla sua presunta fragilità da 'abatino'. "Solo il primo Pelè - ha scritto Luciano Bianciardi - è stato superiore a Rivera, l'alieno che con i piedi sbucciava anche i mandarini". Ma se ci avesse provato anche il Golden Boy, chissà...

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