La vita di Mujica è stata una meravigliosa avventura

“La morte rende la vita un’avventura”, diceva spesso Josè ‘Pepe’ Mujica. E la sua è stata una meravigliosa parabola di poesia e prosa sociale, una giocata abbagliante e sorprendente nella partita che l’umanità gioca sin dalla sua comparsa sulla terra. Un dribbling degno di Maradona, di cui per altro era grande amico, capace di spiazzare e rimpicciolire le logiche culturali e politiche che governano il mondo. Amava il calcio, Mujica. Da sempre. Tanto da inseguire l’emozione del ‘Maracanazo’ che il suo Uruguay inflisse al Brasile attraverso una radiolina Edison che alternava suoni incomprensibili a grida di euforia come l’onda e la risacca nel mare dell’etere. Aveva 15 anni, apparteneva a una famiglia povera e coltivava ideali che avrebbe rinforzato e cesellato divorando montagne di libri. Ma già gli era chiaro che lo sport rifletteva la vita, rimandando immagini che si ritrovano intatte nelle pieghe della realtà. Al punto di non abbandonare mai un convincimento bifronte che distingue due piani differenti per poi fonderli insieme: il campo di calcio rivela la natura dell’uomo perché è là dentro che ci si mostra davvero. Così come il potere non cambia l’uomo, semplicemente svela la sua vera natura. Calcio e potere, dunque. Non in antinomia, ma in fusione permanente, quasi a rappresentare per l’individuo le due facce inscindibili della stessa medaglia. La valenza etica e politica dello sport, del resto, apparve chiara anche nel 2014 quando, da Presidente dell’Uruguay, prese una posizione forte e da molti non compresa sulla pesante squalifica inflitta a Luis Suarez, reo di aver morso Chiellini durante una partita decisiva dei Mondiali brasiliani. Sì, perché Mujica a volte si appoggiava a un linguaggio diretto e poco istituzionale per esternare le sue opinioni: “Quelli della FIFA sono una manica di figli di…” disse davanti alle telecamere, completando il concetto con il gesto che fanno i bambini quando capiscono di averla detta grossa: mano davanti alla bocca, occhi spalancati ed espressione di finto pentimento. Salvo poi autorizzare esplicitamente i giornalisti a pubblicare quell’immagine, spiegando che “Sì, Suarez si è comportato da moccioso di quartiere e meritava una sanzione. Ma non una punizione così fascista. È uno splendido giocatore e non si è reso protagonista di un gesto più duro di tanti altri che si vedono in campo. Imparerà a comportarsi meglio, ma occorre anche comprendere la sua storia, avere solidarietà e umanità comminando sanzioni proporzionate e con senso di giustizia. Appena torna in Uruguay, lo abbraccerò”. E ancora: “La verità è che abbiamo eliminato Inghilterra e Italia. Sai quanti soldi ci ha perso la FIFA?”. A molti sembrò la solita sparata populista di un Presidente tifoso dedito all’aprioristica difesa dei propri colori, ma c’era di più. Molto di più. Un giorno spiegò che per la statura, le dimensioni e lo spessore “politico” dell’Uruguay, ciò che sapeva esprimere la Nazionale di calcio era sostanzialmente un miracolo. Perché quando a scendere in campo sono le rappresentative nazionali il business lascia spazio ai criteri di appartenenza e le squadre non sono costruite dal mercato, ma da uno spirito profondo di attaccamento ai propri valori. Questa è l’emozione irrinunciabile del calcio, non la vittoria inseguita ad ogni costo. Quando premiò Tabarez con la medaglia della Presidenza della Repubblica, gli disse: “Grazie, per aver dimostrato che si può perdere, ci si può rialzare e si può ricominciare a camminare”. Concetto che espresse anche tra i banchi del Senato, in un discorso rimasto indimenticato: “Nella vita mi è successo di tutto. Ma voglio dire una cosa, soprattutto ai giovani: il successo nella vita non è guadagnare soldi. Ma è sapersi rialzare ogni volta che si cade”. Ancora una volta calcio e politica, nel suo senso più alto, fusi insieme come metafora l’uno dell’altra. Del resto Pepe Mujica era un lottatore disposto a sopportare di tutto per i suoi ideali. In gioventù appoggiò il movimento dei Tupamaros sino a sposarne la causa, si mise a combattere per loro sino a farsi arrestare all’inizio degli anni ’70 dalla dittatura militare che impugnava il potere. Subì 12 anni di carcere durissimo, molto spesso fatto di torture e di celle minuscole, anguste e opprimenti, che non consentivano nessuna postura se non quella eretta. Una lunga e insopportabile notte della ragione raccontata anche dal pluripremiato film di Alvaro Brechner nel quale il regista e sceneggiatore uruguaiano mette in bocca al medico incaricato di visitare i prigionieri una frase che da sola dipinge un incubo: “Questo trattamento è un’atrocità. Sarebbe più umano fucilarli”. Dodici anni vissuti in quel modo non sono una scabrosa parentesi, sono un pezzo significativo della vita. Eppure del tempo Mujica ha sempre avuto un concetto filosoficamente ben preciso, mutuato dal pensiero di Seneca: la vita non è breve in sé, lo diventa se sprechiamo il tempo in mille rivoli inutili e dannosi. “Quando compriamo qualcosa non usiamo i soldi, in verità. Ma usiamo il tempo che abbiamo speso per guadagnarli. E così si finisce per lavorare sempre, pur di accumulare il denaro che ci sembra possa soddisfare tutti i bisogni possibili. Senza renderci conto che molti non costituiscono vere necessità, ma desideri indotti dal mercato. E che l’unica cosa che non si può comprare è la vita. La vita non deve essere un peso. La vita deve essere un messaggio di felicità. Non bisogna confondere l’idea di felicità con quella semplicistica connessa al concetto di ‘piacere’. La felicità implica la libertà: cosa faccio, cosa scelgo, ho tempo nella mia vita per fare quelle cose che poggiano su significati profondi? Ma se devo lavorare, lavorare e lavorare per pagare le rate della macchina perché la voglio nuova, e per saldare altre rate di beni che ritengo necessari ancora e ancora e ancora….beh, quando rinsavisco la vita se n’è andata. A mio figlio non voglio che manchi nulla, si dice, di quello che è mancato a me. Sì, però gli manchi tu! Non hai tempo per prenderlo per mano e portarlo a vedere una partita di calcio, o per stare con lui in altre cose elementari della vita. Questo è l’inganno del nostro tempo. E quasi senza rendercene conto diventiamo incapaci di compassione; non piangiamo più davanti al dramma di un altro uomo e non ci interessa aiutarlo a sopportarlo, come se tutto fosse una responsabilità di altri, una cosa che non ci riguarda. Perdiamo la calma e ci innervosiamo se il mercato offre qualcosa che ancora non abbiamo potuto comperare mentre tutte le vite troncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci altera”. Il tempo e gli ideali Il tempo è la chiave per la libertà. Il tempo è la via per la felicità. Il tempo è la dimensione in cui costruire il senso delle cose. Ma Pepe Mujica non era solo un idealista. Certo, aveva idee socialiste e si opponeva al consumismo, ma non nella rigida diade antinomica marxismo/capitalismo. Per lui ogni ideologia finisce fatalmente per piegare l’individuo a una logica, bella o brutta che sia e teoreticamente condivisibile o meno. Snaturandolo: “Quando metti l’ideologia al di sopra della realtà, questa ti colpisce come un pugno e ti fa rotolare a terra. Io devo lottare per migliorare la vita delle persone nella realtà concreta di oggi e non farlo è immorale. Sto lottando per degli ideali, va bene; ma non posso sacrificare il benessere della gente per degli ideali”. Ecco perché la sua Presidenza non si è risolta in un’utopia, ma in risultati concreti cui nessuno inizialmente sarebbe stato disposto a credere: depenalizzò l’aborto, legalizzò il matrimonio tra persone dello stesso sesso , legalizzò le droghe leggere , ma soprattutto durante la sua presidenza il salario minimo in Uruguay aumentò del 250%, la povertà diminuì, la disoccupazione restò bassissima, promosse il commercio e seppe attrarre investimenti dall’estero e l’economia del Paese crebbe del 3,6% annuo. Roba da far strabuzzare gli occhi agli economisti di ogni latitudine. Il tutto condito da uno stile assolutamente personale e scevro da qualsiasi sfumatura di egocentrismo: rifiutò di vivere nel palazzo presidenziale e restò sempre nella sua casetta di periferia di 50 metri quadrati; quando le riunioni governative diventavano aride e inconcludenti le lasciava con scuse ‘agresti’: “Scusate, devo andare ad aiutare mia moglie a raccogliere le zucche” ; si spostò sempre col suo maggiolino del 1987 e rifiutò di venderlo a un compratore disposto a versargli un milione di euro ; decise che 1.000 euro bastavano e avanzavano per le sue esigenze e dunque stabilì di devolvere il 90% del suo stipendio a chi aveva bisogno . E anche qui c’era tanto Seneca, perché ogni volta che lo definivano ‘il Presidente povero’ si inalberava: “Io non sono povero, tutt’al più sobrio. La penso come il grande filosofo romano: povero non è chi possiede poco, ma chi ha bisogno di tanto”. L’Uruguay lo adorava, ma alla fine del suo mandato rifiutò di modificare la Costituzione per prolungare la sua Presidenza, ritirandosi come Cincinnato o Silla. Ma senza calcoli personalistici da banale psicanalisi in stile ‘alla festa mi si nota di più se vado o se non vado?’, perché in realtà non ha mai fatto mancare il suo contributo ‘politico’ alla sua gente, nemmeno da comune cittadino. Che accoglieva chiunque volesse scambiare qualche parola nel suo giardino, dove continuava a coltivare fiori. Gente comune, ma anche intellettuali come Emir Kusturica o calciatori come Lucas Torreira che andò per regalargli una maglia del Galatasaray e che si sedette su una sedia di plastica per chiacchierare con lui di calcio e del senso della vita. E che, nel giorno della sua morte, gli ha dedicato parole dolcissime sui social. Ancora una volta tutto si tiene, calcio e vita. Perché la visione del mondo di Mujica, popolare e rivolta agli ultimi, affondava nello stesso humus culturale di Papa Francesco che, dopo averlo incontrato in Vaticano, lo definì “Uomo saggio”. Era ateo, Pepe, ma riconosceva l’importanza della Chiesa nella cultura latinoamericana e si riteneva “Un accolito di Bergoglio”. Per questo gli regalò un libro di Alberto Methol Ferrè, grande filosofo e teologo uruguaiano, incassando dal Santo Padre un empatico “Grazie, ci ha aperto la mente”. E tutto si tiene perché anche il calcio è un prisma attraverso cui osservare le dinamiche sociali, come sosteneva Pepe: “I giocatori geniali nascono dalle profondità della povertà. Spesso non si rendono conto della gioia che ci donano. Questi ragazzi, con il loro talento e spirito, non sono compresi da chi detiene il potere. La maggior parte del mondo è fatta di oppressi e dimenticati, di chi non ha voce”. E quando uno di loro emerge, bisogna sorridere. Ecco perché amava Maradona ed ecco perché ne era ricambiato: semplicemente perché ne riconosceva la storia più intima, stornata dalle tante storture che la ricchezza e la fama incontrollata gli avevano inflitto. “Maradona è il dio del calcio. La cosa più bella era il suo gioco, e in fondo con la sua pazzia coltivava la fedeltà di classe. Non si è mai dimenticato da dove veniva”. E il Pibe de Oro ricambiava, esprimendo a più riprese il desiderio di andare a trovare Pepe. Non ha fatto in tempo. Almeno su questa terra. Ma gli incontri più disvelanti non poggiano necessariamente sulla carne. Spesso sono le idee e le sensibilità a sfiorarsi generando armonia, come le dita di Dio e Adamo nella Creazione di Michelangelo. Ed era questo, in definitiva, il senso della giovinezza per Pepe Mujica: non quella esteriore che il tempo si porta via, ma quella interiore per cui vale la pena lottare sempre e che si traduce in una sola parola, solidarietà. La musica cambierà il mondo, dicevano molti ragazzi figli del ’68. Mujica lo ha fatto. Ha migliorato quella piccola fetta di realtà su cui poteva incidere, con note forti e discrete, con sonate potenti e struggenti. Lasciando un’eredità faticosa e inestimabile “Perché la libertà serve per pensare diversamente. Per essere d’accordo, la libertà non serve”. Pepe Mujica lo ha fatto. Senza emergere, senza imporre, senza snaturare. Perché così fanno i giganti.

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Alessandro Biolchi