La lenta ma inesorabile corsa di Viktor Dadason

Al giallonero sarà affezionato per sempre. In realtà il Copenaghen ha la maglia bianca, ma i gol contro Borussia Dortmund e Kairat gli hanno regalato una fine d’autunno da sogno. Impossibile pensare di parlare della storia di Viktor Dadason senza partire da un dato: con il gol ai kazaki è diventato il più giovane di sempre a segnare in due partite di una fase finale di Champions League. A 17 anni e 149 giorni ha battuto di circa 50 giorni un certo Lamine Yamal. Detta così, la frase sembra impossibile e il confronto fa venire i brividi. Ecco, i paragoni appunto chiudiamoli qui, perché l’unico punto di contatto tra i due è proprio questa statistica. Magari le loro strade un giorno si incroceranno, ma per ora non può esserci rivalità. Una linea li separa su uno stesso grafico, tutto il resto è distanza: Yamal è luce accecante, è corsa, tecnica e lampi, è la trasgressione del più forte; Dadason è quasi ombra, è umiltà e lavoro, non è uno da copertine. Ma quando entra in campo di notte, sotto i riflettori della Champions, la musica cambia e somiglia tremendamente a quella di Britten . Il suo sguardo diventa diverso, la sua corsa più sicura. Il gol una consuetudine quasi logica. Due gol nel girone con una squadra che ha vinto appena una partita. Per capire da dove nasce quel numero bisogna volare un po’ indietro. Fino alla città da cui è partito, Reykjavík, un posto in cui il vento ti accarezza costantemente. Dadason è cresciuto osservandolo come si osserva un avversario: capendone il tempo, non sfidandolo. Da bambino i suoi migliori dribbling li tirava fuori proprio contro il freddo. In campo non era certo la sua specialità. Al Fram, dove ha cominciato, non era il più veloce, né il più leggero. Le avvisaglie di un ragazzone che oggi ancora non maggiorenne ha già toccato il metro e novantatré di altezza. Viktor era quello che arrivava quando nessuno se lo aspettava. Quando per tutti era quasi quello ‘lento’, lui riusciva a trasformare questa parola in un vantaggio. Perché questo suo modo di giocare lo portava a presentarsi spesso in area da solo, evitando le marcature. Questione di tempismo e di senso della rete. Il passaggio in Danimarca arriva senza alcun clamore. Nessun aeroporto pieno di telecamere. Solo una porta scorrevole e il silenzio ordinato del centro sportivo del Copenaghen. Inghen hast, la parola d’ordine. Nessuna fretta. A Copenaghen la famiglia non lo lascia solo. Dopo averlo spinto ad accettare l’opportunità, insiste perché continui a studiare normalmente e nei primi tempi, a turno, uno dei due genitori rimane con lui in Danimarca. In quei campi, senza fretta, comincia a modificare i suoi movimenti. Meno ampi, più essenziali. Meno rumore, più concretezza. Il suo calcio diventa essenziale, quasi spietato. La sua linea comincia ad andare verso l’alto. E lui pian piano si trasforma in un centravanti moderno. Alto, forte fisicamente ma pure mobile. Gioca molto con l’Under 19 e in Youth League. L’ingresso in prima squadra arriva dopo l’estate. Qualche spezzone di partita in campionato senza reti, due in coppa di Danimarca con 3 gol segnati e la sua specialità, le indimenticabili notti di Champions. L’ingresso contro il Dortmund, la prima da titolare con il Kairat. E quell’incrocio con il giallonero che gli apre davanti spazi infiniti. Lui segna e respira, sognando un futuro a livelli altissimi. Spinto dalla sua famiglia: "se segni 100 gol, pensa subito al centunesimo". Questo il mantra che gli ripetono. Allora chissà che un giorno, la sfida con Yamal non possa diventare, anziché una linea che unisce due numeri su un grafico, una storia reale e tutta da vivere.

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Alessandro Sugoni