Ter Stegen si racconta: "Da piccolo ero attaccante, sono diventato portiere per caso"

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Il portiere tedesco parla a cuore aperto a The Players Tribune, raccontando una serie di aneddoti ed episodi curiosi: dai primi calci al pallone nel garage di casa al passaggio al Barcellona, con un ritorno toccante a Mönchengladbach

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Marc-André ter Stegen a 26 anni ha fatto passi da gigante. Gioca in uno dei più grandi club al mondo, il Barcellona, ed è attualmente tra i migliori al mondo nel suo ruolo. Di strada ne ha fatta tanta, cambiando ruolo, legandosi – inizialmente – per sempre alla squadra del cuore, il Mönchengladbach, e poi cedendo alla tentazione impossibile da rifiutare: il Barça. Un percorso che il portiere tedesco racconta a The Players Tribune. “Un naso sanguinante. È così che sono finito a fare il portiere – spiega il classe ’92 -. Quando ho iniziato a giocare a calcio però ero un attaccante. Adoravo segnare gol, giocavo per quello ed era ciò che mi rendeva felice. Poi un giorno, avrò avuto 10 anni, al nostro portiere iniziò a uscire sangue dal naso. All’allenatore serviva un portiere, ma nessuno lo avrebbe fatto, così mi offrii io. Andai tra i pali e mi piacque. Non avvertii nessun grande cambiamento, non mi ero innamorato improvvisamente della porta, ma mi divertii. Ogni volta che giocavo in porta poi, mi sentivo sempre a più mio agio. I miei compagni di squadra e i miei genitori mi dicevano che stavo facendo bene, ma io continuavo ad amare quella stessa sensazione: segnare un gol, non impedirlo. Era quello che volevo fare ed è ciò che mi ha fatto innamorare del calcio”. Un amore nato da bambino tra le mura di casa: “Avevamo un piccolo giardino, ma non potevamo calciare lì dentro – continua ter Stegen -. Quindi io e mio fratello maggiore giocavamo nel garage dei nostri genitori. Mio fratello faceva il portiere, mentre io tiravo. Costruivamo i paletti con scatole, camicie o qualsiasi cosa trovassimo in giro. Quando avevo circa quattro anni, mio ​​nonno  mi disse che avrebbe cercato di farmi entrare nel settore giovanile del club locale, il Borussia Mönchengladbach. Conosceva qualcuno che poteva dare una mano e così entrai a far parte della squadra.

Ma ero troppo giovane per capire cosa significasse far parte di un club come il Borussia e al primo allenamento avevo già tanto da imparare. Come detto, avevo giocato sempre e solo nel nostro piccolo garage, tirando sempre contro il muro, verso una sola direzione con la palla che tornava sempre verso di me. Non avevo idea che ci fossero due lati del campo, due direzioni da percorrere. Quindi il primo giorno al Gladbach presi la palla e cominciai a correre, intanto sentivo mia madre i miei nonni che urlavano e pensavo stessi facendo bene, più andavo avanti più li sentivo urlare. Alla fine segnai e qualcuno mi disse: «Sei andato nella direzione sbagliata». Non esattamente un primo gol indimenticabile. Rido se ci penso ora, ma allora non mi sentivo imbarazzato, ero solo felice di aver segnato. Allora capii che si andava in entrambe le direzioni. Non so cosa pensasse mio nonno, penso fosse solo orgoglioso che giocassi per il Mönchengladbach. Era lui il grande tifoso in famiglia, così fu lui ad accompagnarmi agli allenamenti. Era in pensione dopo essere stato il capo del dipartimento per la criminalità dei colletti bianchi e quando mi veniva a prendere a casa, prima di accompagnarmi all’allenamento, aveva sempre un pasticcino per me da farmi mangiare prima della seduta. Non importava se pioveva o facesse freddo, lui era sempre lì e mi seguiva anche in tutti i tornei, a prescindere dalla lontananza, offrendo spuntini in tutta la squadra. Non erano solo spicchi d’arancia, ma anche spuntini particolari, come pomodoro e paprika. La maggior parte delle volte però portava di tutto, dalla frutta alla verdura per finire al pane fatto in casa. Ricordo con nostalgia quei tempi perché sia lui che mia madre e mia nonna mi sostenevano sempre e non mi mettevano mai pressione.

Il passato col nonno – l’Opa come viene chiamato in Germania – emoziona ter Stegen ancora oggi: “Mi ha insegnato tante cose, fornito tante lezioni di vita – afferma l’estremo difensore blaugrana -. Ci sedevamo insieme e mi mostrava le foto di famiglia oppure guardavamo vecchi film. Parlavamo di tante cose, tranne che di calcio. Quella era l'unica cosa di cui non volevo parlare. Non volevo che qualcuno mi dicesse come giocare e lui lo sapeva, quindi raramente affrontavamo la questione in maniera approfondita. È strano, ma era un mondo che volevo scoprire da solo. A volte, provava a dirmi come stavano giocando gli altri portieri: «Dovresti provare a modo loro». Ma io non lo sentivo. Non gli dissi nemmeno di quando l’allenatore del Gladbach mi diede l’ultimatum. Dopo aver provato l’esperienza in porta, io volevo continuare a stare tra gli uomini in movimento, ma ai miei allenatori non piaceva il modo in cui stavo giocando in attacco. Criticavano il modo in cui correvo. «Non stai davvero alzando i piedi mentre corri - mi dicevano -. Decidi: puoi fare il portiere per noi o andare a giocare per un altro club». Non ci pensai un attimo e presi subito la mia decisione. In realtà mi voleva un altro club, pronto a farmi fare l’attaccante, ma non mi importava. Segnare non aveva più importanza, ciò che contava era stare al Borussia perché quella era casa per me. Era l'unico club che conoscevo da quando avevo quattro anni. Allo stesso i miei genitori si stavano separando, quindi il calcio diventò una parte ancora più grande della mia identità di quanto non lo fosse già. Mönchengladbach era la mia identità, lì avevo tutto. Così iniziai a cambiare i miei obiettivi, decidendo di diventare un portiere. In realtà penso che aver giocato come attaccante mi abbia reso un diverso tipo di portiere, permettendomi di vedere e usare il campo in modo leggermente diverso. In questo modo cominciai a farmi spazio tra i portieri della squadra, superando anche il taglio che di solito società compie intorno ai 14 anni.

Una volta poi il mio allenatore si arrabbiò davvero tanto con me, non ricordo per cosa ma non dimentico la sua rabbia. Rimproverò la mia prestazione di fronte a tutti i compagni di squadra, non mi era mai successo prima. Entrai in macchina di mia madre e piansi. Pochi giorni dopo però, capii che avevo giocato male e dovevo accettarlo. Questo allenatore sapeva esattamente su cosa dovevo lavorare. Era duro con me, ma onestamente ne avevo bisogno. Avevo bisogno di qualcuno che mi mostrasse cosa sarebbe successo se sarei voluto diventare un calciatore professionista. Avevo bisogno di diventare un giocatore più forte in tanti aspetto.  Fu il momento in cui decisi di concentrarmi veramente sul calcio. Da allora diventai molto severo con me stesso e più indipendente, tanto che, compiuti i 15 anni, decisi di non farmi più accompagnare agli allenamenti da mio nonno e di andarci da solo con il mio scooter”.

"Lascio casa per inseguire un sogno: il Barça"

Dalle giovanili il tedesco è poi passato in prima squadra, continuando sempre con la propria testa fino al passaggio al Barcellona: “Non volevo la mia famiglia accanto perché sapevo che mi avrebbe distratto. Non riuscivo a smettere di pensare a quanto avrebbe fatto male a mia madre se non avessi giocato bene e avesse dovuto sentire fischiare il pubblico. Anche a pensarci adesso, se mai dovessi avere figli, non penso riuscirei a gestire la cosa. Nella mia ultima partita al Mönchengladbach però, non potevo immaginare di non avere lì mio nonno o mia madre o la famiglia della mia futura moglie. Grazie a loro mi sentii più a mio agio e fiducioso in quello che stavo facendo sul campo. Quando ebbi la possibilità di lasciare il Borussia per andare in Spagna nel 2014, fu una decisione enorme. La mia famiglia e il club significavano il mondo per me, ma decisi di trasferirmi per due motivi. Il primo, ovviamente, era lo stile di gioco. Ho sempre pensato, crescendo a Mönchengladbach, che l'unica squadra per cui sarei potuto partire fosse il Barcellona. Il modo in cui muovevano la palla, per un portiere che usa molto i piedi come me, rappresentava una grande opportunità. Ma la seconda ragione arrivò dopo, quando incontrai Andoni Zubizarreta. Mi parlò del club, della sua storia e della sua esperienza. Mi raccontò di cosa aveva provato nel trasferirsi in una nuova squadra e in una città diversa. Mi mostrò cosa significava essere un giocatore del Barcellona ed è quello che mi convinse ad accettare. So che a volte le persone dicono: «Marc ter Stegen? È così freddo». Forse in parte è perché sono tedesco, ma non è il modo in cui voglio che le persone mi vedano. Indosso i colori del Barça con orgoglio. Per me è qualcosa che va oltre il calcio. Questa città e questi tifosi non ti fanno sentire mai solo. Inizialmente avevo avuto problemi con la lingua ed ero felicissimo quando il club aveva acquistato Rakitic perché parlava tedesco e conosceva lo spagnolo, quindi poteva essere un buon traduttore. Poi mi aiutava anche Rafinha che conosceva l’inglese, ma io volevo essere in grado di sostenere una conversazione più complessa con i ragazzi, così decisi di prendere lezioni di spagnolo. Il Barcellona è davvero qualcosa più di un club”.

    

    

Un ritorno... da ospite

Nel 2016 ter Stegen ha però avuto la possibilità di fare un ritorno a casa: “Quando vidi il sorteggio per i gruppi della Champions League e il Barça pescò il Mönchengladbach, non sapevo cosa provare – conclude il tedesco -. Inizialmente non ero davvero contento, ma poi iniziai a pensare che fosse davvero una bell’occasione per salutare tutti dopo che il migliore amico mi mandò un messaggio con tante facce sorridenti. Ma come avrebbe reagito il mio vecchio club o i miei vecchi tifosi? Una volta arrivati, tutto era così familiare ma allo stesso tempo un po’ diverso. Per la prima volta in assoluto, entrai nello stadio e andai nello spogliatoio degli ospiti, qualcosa che non avevo mai fatto prima in vita mia. Anche durante il riscaldamento mi sbagliai, andando nella metà sbagliata del tempo. Quando lo feci, guardai le tribune e tutti i tifosi si alzarono per applaudirmi. Mi fecero emozionare tanto. Mi iniziò a venire la pelle d'oca dappertutto e non riuscivo a nascondere le lacrime nei miei occhi. Diciotto anni sono tanto tempo, il Borussia è stata la mia vita. Lasciando il campo quella notte, però, sentii la differenza. Mönchengladbach sarà sempre speciale per me. Il Mönchengladbach sarà sempre il luogo che ha dato forma alla mia carriera e che alla fine mi ha permesso di vivere il sogno di tutti i bambini di giocare al Camp Nou. Ma capii a quel punto che ormai era diventata la mia seconda casa. Sai che mio nonno non è mai stato al Camp Nou? Continuo a dirgli che deve venire e un giorno lo farà. Se vedrai un uomo anziano fuori dal Camp Nou che fa saltare pomodori e paprika, allora saprai che ha fatto questo lungo viaggio".