Dai record di Harry Kane al grande momento di forma di Arnautovic passando per la difficile convivenza tra Lukaku e Ibrahimovic: tutto ciò che c'è da sapere dopo il Boxing Day di Premier League
La grandissima giornata di Hurri-Kane
Con il primo gol segnato al Southampton, ha superato Alan Shearer per numero di gol segnati in Premier League in un anno solare, un record che resisteva dal 1995 (Shearer ne aveva segnati 36, lui 39). Con il secondo gol ha superato Leo Messi per numero di gol segnati nel 2017, spezzando il duopolio Messi-Ronaldo che in questa speciale classifica durava da sette anni (l’argentino ne ha segnati 54 in 64 partite, lui ne ha segnati 56 in 50 partite). Con il terzo gol ha superato Robbie Keane nella classifica marcatori di tutti i tempi del Tottenham, guadagnandosi un posto tra i primi dieci (lui è arrivato a 123, Robbie si era fermato a 122) in appena sette anni. Il vincitore assoluto di questo Boxing Day non può che essere Harry Kane, attuale capocannoniere di Premier League e senza ombra di dubbio ormai uno dei centravanti migliori del pianeta.
Se esistesse una funzione di utilità per misurare il peso dei gol segnati, vedremmo la curva del valore marginale dei gol di Kane impennarsi all’aumentare della variabile. Nel 2017, Kane ha segnato così tanto che ogni ulteriore centro offriva l’occasione per festeggiare un altro record, rivestendo di significati sempre nuovi la tempesta di gol che si stava abbattendo sul Southampton.
Ha aperto le marcature con un colpo di testa, raccogliendo una punizione tagliente di Eriksen («avere un giocatore come Christian, che serve assist del genere, è il sogno di ogni attaccante», ha commentato a fine partita). Poi ha coronato con un tap-in a due metri dalla porta una splendida azione corale che ha coinvolto tutti gli offensivi del Tottenham, e infine ha sigillato i tre punti con un pallonetto di sinistro, al termine di una bruciante transizione condotta da Alli.
Anche in occasione degli altri due gol, Kane ha contribuito a far salire la squadra muovendosi in appoggio con le spalle verso la porta. I suoi strappi hanno scombinato la linea di difesa del Southampton, sempre alla ricerca dell’anticipo senza mai riuscire a vincere i duelli individuali.
L’azione del 2-0: il Southampton ha provato a tenere le linee compatte, senza grande attenzione a coprire le linee di passaggio. I movimenti elastici di Kane hanno reso impossibile la vita a Yoshida
Il Tottenham ha mostrato la miglior versione possibile di se stesso, quella che dovrebbe preoccupare la Juve in vista del doppio confronto europeo. Fin dai primi minuti, è riuscito a muovere velocemente il pallone nella porzione centrale del campo e a guadagnare metri con le sovrapposizioni dei terzini. Ha concluso il primo tempo con 11 tiri tentati e il 60% di possesso palla, e ha archiviato la pratica sfruttando la vena realizzativa del proprio centravanti, abituato a ripetersi nel giro di pochi minuti. La tripletta segnata al Southampton è la quinta del suo 2017, in una collana che conta anche sette doppiette e un poker.
Quando Kane si accende, il Tottenham dilaga, ma è vero anche il contrario: quando Kane non viene servito con continuità, il Tottenham diventa sterile e inoffensivo. Lo straordinario stato di forma del centravanti inglese è il motivo per cui la squadra di Pochettino può ancora competere per il secondo posto, che dista soli sei punti, pur avendo perso quattro dei cinque scontri diretti.
La bella storia natalizia di Defour
Otto anni fa, Steven Defour aveva ventun anni e le attenzioni dei più grandi club d’Europa rivolte su di lui. Una frattura del metatarso lo costrinse a restare cinque mesi lontano dal campo, gli impedì di debuttare in Champions League, e la sua carriera smise di decollare, in mezzo ad altri infortuni muscolari: «Ho iniziato a correre diversamente, ho smesso di usare muscoli che usavo e ho iniziato a lavorare su muscoli che non usavo prima, quindi ho avuto numerosi strappi e stiramenti».
Aveva pensato di trasferirsi negli Emirati Arabi dopo aver trascorso due anni nell’Anderlecht senza vincere nulla, mentre gli allenatori cambiavano e i tifosi dello Standard Liegi, la sua ex-squadra, chiedevano (letteralmente) la sua testa. Poi è arrivata l’offerta del Burnley, che gli ha permesso di rilanciarsi nelle vesti di dinamico regista offensivo, motore del gioco tutto pressing e transizioni rapide dei "Clarets".
Beckham-esque: facile capire perché piacesse a Ferguson
Il gol segnato all’Old Trafford gli avrà ricordato la lettera che Alex Ferguson gli scrisse esattamente otto anni fa, per augurargli un recupero rapido e indolore sul piano fisico e mentale, e per assicurargli che avrebbe continuato a seguirlo da vicino. Defour ha chiuso un cerchio, e ci ha regalato un bel racconto natalizio.
Ibra e Lukaku possono giocare insieme? A quanto pare no
Contro il Burnley, Ibrahimovic ha fatto il suo esordio da titolare in questa Premier League ed è stato sostituito al termine del primo tempo, dopo una prestazione opaca (30 passaggi con il 70% di precisione e un solo tiro, per di più bloccato). Mourinho ha pensato di sovrastare una delle difese più fisiche del campionato schierando due punte sopra il metro e novanta, per conquistare quelle palle alte che il Burnley concede volentieri come unica soluzione offensiva (è la prima squadra del campionato per duelli aerei vinti). Nonostante un solo precedente poco confortante - otto minuti di assoluta improduttività nella sconfitta in Coppa di Lega contro il Bristol City - Mourinho aveva garantito alla stampa che la convivenza tra Ibra e Lukaku due fosse possibile, perché Ibrahimovic è a suo agio anche nel ruolo di “10”, numero che effettivamente indossa sulla maglia. Non è andata bene, però. Frustrato dall’ostinata fase difensiva del Burnley, lo United ha tentato il cross 51 volte, una cifra mai raggiunta da nessuna squadra in questo campionato. Ibra ha provato a muoversi da seconda punta, offrendo sponde spalle alla porta mentre Lukaku attaccava la profondità, ma nella maggior parte dei casi la posizione piatta dei due attaccanti orientava il gioco dello United verso le fasce, la zona che il Burnley preferisce difendere.
Lukaku e Ibra camminano alle spalle della difesa del Burnley fino a pestarsi i piedi, un set di movimenti rubato all’Italia di Ventura
Come mostra la mappa dei passaggi, Ibra e Lukaku hanno giocato nel complesso alla stessa altezza, non sono mai riusciti a dialogare tra di loro e il belga si è ritrovato ancora più ai margini della manovra di quanto non si ritrovi abitualmente. L’unica soluzione che Lukaku ha trovato per incidere sulla partita è stata quella di muoversi nelle insolite vesti di ala destra, con un paio di iniziative poco ispirate. Con l’ingresso di Mkhitaryan e Lingard, lo United ha condensato di trequartisti la metà campo avversaria occupando in ampiezza tutti i canali disponibili. Questo non ha reso più semplice trovare Lukaku, imbottigliato tra i difensori del Burnley, ma ha decisamente velocizzato la circolazione della palla e la fase di riaggressione. Nonostante ritenga «non sufficiente» la cifra investita sul mercato, Mourinho ha tante soluzioni tattiche a disposizione: quella del doppio centravanti, per ora, non sembra funzionare.
The Marcos Rojo Horror Picture Show: probabilmente i suoi peggiori primi 5’ di sempre
Dopo cinquanta secondi dall’inizio della partita, il Burnley riesce a innescare la sua classica azione offensiva: lancio lungo del difensore centrale per la testa della prima punta, che prova a vincere il duello aereo e a far cadere la palla nella zona del trequartista. Tutto procede secondo i piani, Mee pesca Barnes, che con la sponda serve sulla corsa Hendrick. L’irlandese si allunga il pallone e si lancia verso la porta avversaria, finché viene travolto da Rojo, che aveva un notevole vantaggio ma ha letto tardi e male la traiettoria, senza riuscire a riposizionare il corpo. Farà anche peggio qualche secondo dopo, quando finirà in ginocchio al centro dell’area nel tentativo di contenere Barnes. A fine primo tempo, uscirà per fare spazio a Lingard, il salvatore di giornata.
Come noto, il calcio è uno sport a basso punteggio in cui il risultato viene deciso da un numero limitato di episodi. Questo assunto è particolarmente rilevante per comprendere il Burnley di Dyche, una squadra costruita per rendere il punteggio bassissimo e restringere al minimo indispensabile il numero di episodi decisivi. Il record di vittorie nel Boxing Day del Manchester United, il migliore tra le squadre di questa Premier League, è stato sporcato da due gol che Mourinho ha definito «very bad goals» (e poi anche «“s” goals»), due gol che descrivono perfettamente come il Burnley abbia costruito il suo miracoloso settimo posto, a ridosso delle sei “grandi” del calcio inglese.
Rojo in ginocchio, mentre Barnes segna il gol del vantaggio
Sono servite due punizioni: la prima l’ha calciata Gudmundsson, ed è finita al centro dell’area, in una mischia che ha risolto Barnes con la zampata vincente; la seconda l’ha calciata Defour, ed è finita nell’angolo alto alle spalle di De Gea, al termine di una traiettoria imprendibile. Dopo il secondo gol, arrivato al trentaseiesimo del primo tempo, il Burnley ha accettato di non tirare più verso la porta del Manchester e di lasciare agli avversari il 73% del possesso palla, chiudendosi con dieci uomini a protezione del vantaggio.
Due brillanti intuizioni di Lingard hanno comunque permesso allo United di evitare la sconfitta e conservare il secondo posto solitario, ma non hanno scalfito le certezze della squadra di Dyche. Il Burnley si è presentato all’Old Trafford privo di cinque titolari (Heaton, Tarkowski, Ward, Brady e Wood) e ne è uscito con un punto prezioso, conquistato con il tradizionale senso pratico.
Trent Alexander-Arnold è il nuovo treno di Klopp
Il 5-0 subito dallo Swansea in casa del Liverpool non dice quanto a fondo sia spinta la spirale involutiva dei gallesi, arrivati ora a 10 sconfitte nelle ultime 13 partite, un declino così apparentemente irrimediabile da spingere l’allenatore-giocatore, Leon Britton, a parlare di «errori basici, di quelli che si vedono alla scuola calcio», e ad accusare i suoi compagni-sottoposti di scarsa professionalità. Certo, lo Swansea non era chiamato alla più facile delle imprese, cioè portare via almeno un punto da Anfield Road, il posto in cui il Liverpool non perde un match del Boxing Day da trentuno anni, e dove quest’anno ha subito soltanto 3 reti (miglior difesa casalinga della Premier, dopo le due reti subite dal Manchester United contro il Burnley).
In questo pantano di commiserazione, le transizioni fulminee dei Reds si sono incuneate come gli shinkansen nelle pianure giapponesi. Oltre alla scintillanza di Coutinho, alla concretezza di Firmino e all’inafferrabilità di Salah, però, contro lo Swansea ha particolarmente brillato il giovane Trent Alexander-Arnold, diciannovenne prodotto delle giovanili scouser, che ha anche segnato un gol iconico sotto la Kop con un bel destro di mezzo esterno al termine di una percussione tambureggiante: era dal 2014 che per i Reds non andava a segno un teenager. Allora fu Raheem Sterling.
Se utilizzo la parola anche parlando del gol è perché al di là dell’appariscenza di finire sul tabellino dei marcatori TAA ha giocato una partita tatticamente ordinata - in cui ha recuperato quattro volte il possesso e praticamente annullato Jordan Ayew nei diciotto duelli tra i due - anche se votata alla fase offensiva. Insieme a Emre Can è stato il giocatore che ha toccato più palloni, dopo i due centrali difensivi, in fase di impostazione, e con Oxlade-Chamberlain e Salah ha dato vita a una catena di destra, del tutto inedita rispetto all’ultima psicologicamente devastante rimonta subita contro l’Arsenal, perfettamente oliata, che ha portato TAA al cross per 7 volte e anche al tiro. Nella vertigine iperverticale che Klopp vorrebbe seguisse la sua squadra, Trent Alexander-Arnold è l’ennesimo treno su cui caricare le proprie aspettative. Con la calma che merita, senza il rischio di farlo deragliare troppo presto.
L’asse spagnolo del Chelsea
Il calcio inglese è terreno fertile per quei sodalizi indissolubili e di particolare successo tra giocatori che a volte prendono i contorni della vera e propria bromance (cioè una storia romantica, “romance”, tra “brother”, fratelli) e la relazione in campo tra César Azpilicueta e Álvaro Morata è esattamente al livello che nel Chelsea avevano raggiunto le coppie Drogba-Lampard e Costa-Fabregas, dopo appena pochi mesi di conoscenza reciproca. Ognuno dei sei assist (secondo miglior assistman della Premier League alle spalle del terzetto monstre del City De Bruyne-Sané-Silva) realizzati in questa stagione dal centrale difensivo destro, è finito sulla testa del numero nove, che ha l’ha inevitabilmente trasformato in rete. Allo stesso modo di come tendiamo a riconoscere in Morata uno dei principi incontrastati del fondamentale del colpo di testa, alla stessa maniera dovremmo considerare l’abilità surreale di Azpilicueta nel dipingere cross perfetti per gli stacchi del compagno.
L’ennesima ottima partita del terzino/centrale spagnolo è tutta nei suoi numeri: oltre ad essere il giocatore che ha toccato più palloni (114), Azpilicueta è anche stato il principale propellente propositivo dei Blues, con 7 cross e 3 passaggi filtranti. Il rapporto morboso, geloso ed esclusivo, tra lui e Morata (che secondo Conte costringerà il centravanti a pagare non una ma molteplici cene al difensore) è stato il grimaldello principale con il quale il Chelsea ha cercato di scardinare le serrande del Brighton Hove Albion, rimaste chiuse, per quanto a fatica, per i primi 45 minuti. Pur senza trasmettere mai quella sensazione di dominanza che ne ha caratterizzato, per larghi tratti, il gioco nell’anno solare, il Chelsea si sta lentamente trovando, ed ora è staccato di un solo punto dal Manchester United: Bakayoko sta interiorizzando i movimenti che Conte chiede ai suoi interni incursori, e l’asse spagnolo continua a funzionare a meraviglia. Anche la seconda rete, in effetti, è nata dall’intesa tra Fabregas e Marcos Alonso. E non è un caso che a questo punto della stagione il Chelsea sia il club in cui più reti sono state segnate da calciatori iberici: ora come ora sono venti, a pari merito con la Real Sociedad.
Il pazzesco periodo di Marko Arnautovic
Non c’è nessun giocatore che meglio di Marko Arnautovic riesca a restituirci, oggi, l’idea di che tipo di squadra sia diventata il West Ham United. La sua carriera recente e passata, e la sua stagione in corso con gli Hammers, sono l’essenza stessa dei "claret & blue", tartassati dallo stress frustrante di trovarsi su una montagna russa fatta di giocatori dall’hype indiscutibile e prestazioni deludenti, a tratti deprimenti, senza possibilità di scendere, o almeno rallentare per un giro. Gli Hammers sono una squadra spesso incapace di capitalizzare il vantaggio iniziale, che presta il fianco al ritorno degli avversari con arrendevolezza e una certa predisposizione al rocambolesco. Il pazzesco pareggio per 3-3 in casa del Bournemouth non tradisce la coerenza, ma in più si specchia esattamente nella prestazione di Arnautovic, e viceversa. A partire dal fatto, a riprova di quanto tutta la loro stagione sembri una grosso happening situazionista, che il centravanti viennese sia sceso in campo con una maglia sulla quale il cognome era scritto nella maniera meno corretta.
Dopo un primo tempo incolore, nella ripresa Arnautovic ha cambiato maglia, e con essa anche il proprio mood: ha sbagliato un gol in maniera abbastanza Arnautovic™ sul 2-1 per i "Cherries" (arrivato in rimonta, con il primo gol di Aké in Premier League), prima che il suo cinismo da Bad Santa si scatenasse. Nelle precedenti quattro partite Arnautovic aveva segnato tre reti, mancando l’appuntamento col tabellino solo contro l’Arsenal. Nel portiere del Bournemouth, Begovic, Arnautovic ha trovato il perfetto bersaglio del suo bullismo: prima ha punito uno scivolone disgraziato, poi ha approfittato di uno svarione su un tiro di Chicharito per segnare la sua doppietta e allineare la media a un gol per partita nelle ultime cinque gare. Per spiegare lo stato di forma del suo attaccante David Moyes, subentrato a Bilic a inizio novembre, racconta di avergli semplicemente detto che se non avesse corso non avrebbe giocato: “Credo che mi abbia preso alla lettera”. Ce ne sarebbe a sufficienza per dirlo on fire; ma se c’è una cosa che il West Ham ci ha insegnato quest’anno e che dopo una discesa c’è sempre, più prima che poi, una salita.