Evra: "Ferguson si infuriò al mio esordio con il Manchester United. Stavo male"

Premier League

Il francese racconta un aneddoto sul suo debutto con la maglia dei Red Devils: "Non ero abituato ai loro orari. Mangiai male e comincia a vomitare. Poi in partita il mister..."

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Lunedì, a 38 anni, Patrice Evra ha annunciato la sua decisione di ritirarsi dal calcio. Una lunga carriera terminata in Premier League, nella quale era sbarcato per la prima volta nel 2006. Dopo tre anni e mezzo di militanza al Monaco, Sir Alex Ferguson lo notò e decise di portarlo al Manchester United per 5.5 milioni di sterline. L'avventura tra le fila dei Red Devils, tuttavia, cominciò tutta in salita. A raccontare i primi passi nel club inglese è stato proprio l'ex terzino in una lunga lettera pubblicata su The Players' Tribune. "Come ricordate, ho fatto il mio debutto contro il Manchester City. Un grande derby - si legge nella lettera -. La partita iniziava alle 12.45, un orario insolito per un francese come me. Non ero abituato alle colazioni tradizionali, quindi non sapevo cosa mangiare per prepararmi. Alla fine ho scelto pasta e fagioli. Mi sono ammalato e ho cominciato a vomitare. Sono andato nella mia stanza chiedendomi cosa fare. «Devo dire a Ferguson che non posso giocare, che sono malato? No Patrice, non puoi! Apparirai debole e spaventato. Devi giocare». Sull'autobus per lo stadio ho avuto le vertigini. C'era il sole, faceva caldo. A Manchester, ma dai! Durante la partita, ho cercato di colpire la palla di testa e mi sono beccato una gomitata in faccia da Trevor Sinclair. Perdevo sangue dappertutto. Sapete quando nei cartoni animati esce la nuvoletta che indica cosa pensa il personaggio? La mia diceva «oh mio Dio, questi ragazzi sono così veloci e forti. Era così bello a Montecarlo...». A metà tempo eravamo sotto di due gol. Ferguson era infuriato. Mi ha guardato e ha detto: «Ora basta! Ti siedi e guardi gli altri giocare perché devi imparare com'è il calcio inglese». Così mi sono tolto le scarpe e mi sono asciugato un po' di sangue. Alla fine abbiamo perso 3-1, ero così giù". L'allenatore ammise successivamente di aver azzardato nel mandarlo in campo così presto, ma quella prestazione costò inizialmente la fiducia a Evra. Prima di diventare un punto fermo dello United per gli anni successivi, in quei sei mesi collezionò appena 11 gettoni in campionato e perse il posto in Nazionale, restando a casa durante il Mondiale. "Quella volta non ero deluso, ma arrabbiato - ha aggiunto il classe 1981 -. Ho trascorso l'intera estate in palestra, guardando i miei compagni di squadra portare la Francia in finale. Sapevo che avrei dovuto essere lì! Sono serio, volevo distruggere tutto. Mi sono allenato come un matto: più pesi, più ripetizioni, più dolore. Non ho nemmeno preso una vacanza. Non avevo capito cosa ci voleva per giocare con lo United. Mi ero presentato pensando di essere un grande giocatore, ma il Manchester è più grande di tutto. Puoi giocare una partita di coppa contro una squadra di quinta divisione di fronte a 76 mila persone. A Monaco giocavamo di fronte a 6 mila. L'atmosfera era così tranquilla che si potevano sentire le suonerie sugli spalti. Non sto scherzando. Quando sono tornato per il ritiro con i Red Devils, ero più forte e più veloce che mai. E dopo, sono diventato inarrestabile. Ecco perché dico che la partita contro il City è stato il mio momento clou allo United. Avevo bisogno di quell'esperienza, dovevo capire che non ero nessuno".

L'inizio a Marsala

Nella lunga lettera, Evra non ha dimenticato di menzionare il momento dove tutto è cominciato: la sua prima avventura da professionista a Marsala. "Pensavo che questo piccolo club in Sicilia fosse la mia porta per il paradiso - ha scritto il francese -. Ma prima ho dovuto combattere. Mi era stato detto che avrei incontrato i miei nuovi compagni di squadra in un villaggio di montagna nel nord Italia, dove si stavano allenando. Non avevo mai viaggiato all'estero da solo. Non parlavo italiano. Sono uscito di casa con nient'altro che un pezzo di carta con sopra il mio numero di telefono. Ho preso il treno per Milano, dove avrei dovuto prendere un altro treno che mi avrebbe portato al villaggio di montagna. Alla stazione di Milano, ho visto uno di quei grandi schermi in cui le lettere continuano a cambiare, sai, come nei vecchi cinema. L'ho guardato. Ho guardato il mio biglietto. Dov'era il mio treno? Poi uno sconosciuto è venuto da me. L'unica cosa che posso dire di lui era che veniva dal Senegal e che era cieco da un occhio. Mi disse: «Ehi, come stai fratello? Sembri perso, sembri triste». E ho risposto: «Sì, non so dove andare». Gli ho mostrato il mio biglietto e mi ha spiegato che il mio treno era partito già da un'ora. Gli ho fatto vedere così il numero di telefono e lui lo ha chiamato. Ha risposto mia madre e, quando ha saputo che avevo perso il mio treno e che ero alla stazione con uno sconosciuto, è impazzita. «Rimettilo sul treno per tornare a Parigi!» ha gradito, ma lo sconosciuto le ha detto di non preoccuparsi: «Domani lo metterò sul treno giusto». Mi ha portato a casa sua dietro l'angolo. Mi ha dato da mangiare e mi ha lasciato dormire sul pavimento, con altri otto sconosciuti. Alle sei del mattino mi ha svegliato e mi ha accompagnato alla stazione. Ancora oggi non ho idea di chi fosse, ma non posso ringraziarlo abbastanza. Finalmente ero salito sul treno giusto, ma non avevo idea di quando scendere. Conoscevo solo il nome della stazione, quindi ad ogni fermata chiedevo alla gente: «È questa vero?».  Dopo un po', le uniche persone a bordo eravamo io e tre suore. Continuavo a chiedere loro: «È qui?». Dopo la terza o la quarta volta hanno iniziato a infastidirsi con me, ma alla fine sono sceso nel posto giusto. Sono uscito e mi sono guardato intorno. Cosa ho visto? Niente. Neanche una panchina. Solo il vento. Ho pensato «ok, ora sono completamente perso». Nessun telefono. Nessun angelo. Nessuna suora. Come uscirò da questa situazione? Ho deciso di aspettare. Sono passati cinque minuti. Dieci minuti. Mezz'ora. Un'ora. Due ore. Non veniva nessuno e iniziava a fare buio. Sono passate sei ore. Finalmente ho visto arrivare le luci di un'auto. Era un dirigente del club. «Mi dispiace così tanto - ha detto -. Pensavamo avessi perso il treno». Mi ha portato all'hotel nel villaggio, dove ho preso una tuta e delle scarpe da ginnastica. Mi sono guardato allo specchio e ho detto: «Oh mio dioooo». Ero il ragazzo più felice del mondo. Poi ho chiamato mia madre e lei ha iniziato a piangere.

Non dimenticherò mai il mio primo giorno in Sicilia. Ero appena arrivato quando un bambino con suo padre ha iniziato a indicarmi e ha chiesto se poteva fare una foto con me. Ho pensato «Cosa? Non ho ancora giocato una partita e queste persone sanno chi sono?» Gli ho chiesto perché voleva la foto. Il bambino mi ha detto: «Perché non abbiamo mai visto una persona di colore prima d'ora». Wow.… Benvenuti in Sicilia. Anche i miei compagni di squadra sono stati sorpresi di vedermi. Ero l'unico giocatore nero della squadra. C'erano così tante cose che le persone lì non capivano sui neri, ma era più ignoranza che razzismo. In effetti, i siciliani sono molto generosi. Puoi camminare per strada e ti invitano a casa loro per cena. Le cose brutte sono arrivate mentre giocavo per strada. La gente emetteva rumori di scimmia e simulava di mangiare banane. È stato davvero difficile. Ma venivo da Les Ulis, ero un tipo tosto. Dopo un anno, sono entrato a far parte del Monza in Serie B, e poi la stagione successiva sono partito per Nizza. All'epoca ero un attaccante, ma quando il nostro terzino sinistro è rimasto infortunato l'allenatore, Sandro Salvioni, mi ha spostato in difesa. Ero così arrabbiato, ma aveva ragione lui. Volevo mostrare a tutti che ero un attaccante. Stavo canalizzando la mia rabbia nel gioco. Nel mio secondo anno siamo stati promossi e ho firmato per il Monaco, uno dei più grandi club di Francia. Ho ottenuto il mio primo grande stipendio e con i soldi ho comprato a mia madre una casa".