Che problema ha il Tottenham Hotspur?

Quando la magica urna ha eletto gli accoppiamenti del terzo turno di FA Cup, da sempre momento più atteso dell’anno per l’ingresso nel torneo delle squadre di prima e seconda divisione, il padiglione che ospitava tutta la comunità sportiva di Tamworth, cittadina di 70mila abitanti del Black Country inglese collocata esattamente a metà tra Leicester e Wolverhampton, è impazzita di gioia. Succede non di rado, quando le strade di una piccola squadra non appartenente alla piramide professionistica e dei colossi della Premier League si incontrano. A suscitare però ilarità in tutto il paese è stata la reazione dei bambini presenti quella sera. L’euforia, stimolando la purezza della spontaneità che accompagna i comportamenti a quell’età, ha suggerito loro di intonare il celebre coro che saluta i tifosi degli Spurs a ogni dolorosa sconfitta, “Tottenham get battered everywhere they go” . Tifosi di una squadra di settima divisione che deridono uno dei club più prestigiosi del paese. Questa è la macchia che si porta dietro il Tottenham Hotspur. Ma questa affinità tra gli Spurs e il fallimento cos’è esattamente? Una coincidenza? Una maledizione? Cosa c’è che non va al Tottenham? Oggi è paradigma noto e diffuso, nonché certificato di garanzia di successo, che un club con una solida base finanziaria, gestito oculatamente e rispettoso dei vincoli imposti dalle norme che regolano il mondo del calcio, abbia tutte le componenti per determinare un destino felice di risultati sportivi. Le fondamenta, quelle già citate, accompagnate da strutture moderne ed avanguardiste per le partite del weekend e per la vita quotidiana del resto della settimana, sono non solo fonte di accrescimento di un patrimonio multimiliardario ma anche elemento in grado di accattivare e lusingare i calciatori più forti. Bene, il Tottenham ha tutto questo. Ed è stato addirittura precursore in molti di questi aspetti. Il proprietario Daniel Levy, uno degli uomini d’affari più potenti di tutto il Regno Unito, può aver perso la fiducia della gente ma a livello gestionale ha saputo creare quello che in altri contesti fanno fatica a riprodurre interi fondi monetari. Ora, il bilancio come precisamente riportato da Calcio e Finanza ha registrato al 30 giugno 2023 una perdita annuale di 86,8 milioni di sterline. Questo ci impedisce di utilizzare la parola 'utile' e di definire 'sano' il club del nord di Londra, ma, nonostante ciò, il Tottenham è considerato un club in salute. Hotspur Way, il centro sportivo degli Spurs collocato nel distretto di Enfield, ai confini dell’ingresso nord della città, è tra i migliori del mondo. Lo sottolineò anche Josè Mourinho nel giorno della sua presentazione, ironizzando sulla comodità dei cuscini dell’hotel a 5 stelle presente all’interno. Quindici campi di erba tagliata al millimetro, quattro dedicati esclusivamente alla prima squadra, due campi ridotti artificiali con erba sintetica di ultima generazione dotati di illuminazione. Il top. Il Tottenham Hotspur Stadium è lo stadio più moderno al mondo. Un miliardo di sterline per costruire non uno stadio, ma "un’esperienza", per usare le parole di Daniel Levy nel giorno di inaugurazione dello stadio . Un campo da football americano sotto quello da calcio, la tribuna dietro la porta più grande d’Europa, la South Stand, il bar più green e sostenibile, il negozio più grande. “Venue” di partite del campionato di calcio più importante, franchigie NFL. Al Tottenham Stadium si è esibita Taylor Swift, registrando il record di incassi. Al Tottenham Stadium ha combattuto Anthony Joshua. Non un semplice stadio, ma un gioiello che ha rivitalizzato un’area urbana tra le più complicate e disastrate di Londra con 3000 posti di lavoro creati e dati esclusivamente ai residenti. Ma la bacheca dei trofei è rimasta impolverata. Giocatori di classe mondiale, allenatori tra i più prestigiosi e decorati hanno provato a farla rivivere. L’ultimo trofeo, una Coppa di Lega vinta a Wembley nel 2008 con un gol di Jonathan Woodgate nel secondo tempo supplementare contro il Chelsea, è una lacrima lacerante per ogni tifoso. L’ultima FA Cup risale al 1991. L’ultima Premier League, ma è più doveroso scrivere l’ultima First Division, al 1961. Il Tottenham ha sfiorato il titolo nel 2016 e nel 2017 sotto la guida di Mauricio Pochettino. Sembravano le basi per un futuro diverso. E invece no. Innanzi tutto, anche lì, la grandezza delle due stagioni fu travolta dalla doppia beffa di essere arrivati terzi in una 'two-horse race', ossia una corsa a due con il Leicester, e dall’essere battuti dai rivali storici del Chelsea. La finale di Champions League del 2019, conquistata con un’iconica rimonta ad Amsterdam nella semifinale di ritorno, è quanto di più vicino alla gloria il Tottenham si sia mai avvicinato per scrollarsi dalle spalle il mantello dell’umiliazione. È proprio in quella partita, e in tutto ciò che la accompagnò che forse si può trovare una risposta sensata al quesito inziale e mettere insieme i pezzi del puzzle. In un’intervista rilasciata al Guardian, Hugo Lloris, 12 stagioni con gli Spurs e capitano in 10 di queste, racconta questo aneddoto: “4 giorni prima della finale di Madrid, Daniel Levy chiamò tutta la squadra per annunciare che con il supporto di uno sponsor, avremmo tutti ricevuto un orologio di lusso. All’inizio eravamo eccitati. Poi lo aprimmo e trovammo un’incisione con scritto ‘Champions League Finalist 2019’. Chi fa una cosa del genere in un momento del genere? Ancora non mi è passata, e non sono l’unico”. Queste parole ci riconducono direttamente all’ultima conferenza stampa di Antonio Conte da allenatore del Tottenham, datata 18 marzo 2023. Conte punta il dito contro l’atteggiamento dei giocatori, ma le sue critiche attraversano chi gioca per arrivare all’input che arriva dall’alto. “Al Tottenham non vogliono giocare sotto pressione” – sicuramente non la linea più dura dello sfogo di Conte ma forse la più significativa. Conte aveva individuato il problema. Che non erano i soldi, o gli investimenti, come scritto erroneamente da più parti. Al Tottenham manca l’ambizione. La fame di vincere. Di alzare trofei, di aggredire le partite con lo spietato ardore di quelli a cui attribuiamo la cosiddetta mentalità vincente. D’altronde Pochettino lo aveva fatto intuire in un’intervista a BBC Match of the Day dopo un’eliminazione in FA Cup dettata da un’eccessiva rotazione della squadra. “Mr Levy non mi esonera se vengo eliminato da una coppa, ma se non arrivo quarto”. Top 4, ossia qualificazione in Champions League, dunque entrate. Da più parti, dal merchandising, dalla biglietteria, dai diritti televisivi, dai diritti d’immagine. Un club prospero, questo è quello che vuole Daniel Levy, uno straordinario uomo d’affari la cui ambizione semplicemente non combacia con quella degli altri. Per lui vincere non necessariamente significa alzare un trofeo.

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Filippo Benincampi