Serie A, le migliori giocate della 33^ giornata

Serie A

Fabrizio Gabrielli

La rovesciata di Simy, i movimenti preziosi di Milik e altre perle primaverili dai centravanti che hanno fatto faville nel turno infrasettimanale, dove si è tornato a segnare tanto

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Nonostante i turni infrasettimanali sembrano sempre un po’ interlocutori, la trentatreesima giornata, la prima davvero primaverile di questo campionato, ha assistito a una specie di risveglio dei sensi. Dopo la dieta ferrea dei cinque 0-0 della scorsa giornata si è tornato a segnare molto; su due dei tre fronti di maggiore interesse, la lotta per lo scudetto e quella per la qualificazione in Champions League, pur rimanendo sostanzialmente invariata la situazione ha assunto quel retrogusto di finale di stagione che hanno le serie tv quando tutti i tasselli cominciano a incasellarsi.

Il Napoli, con quel tipo di rimonta agonica che è diventata una costante degli ultimi periodi, è riuscito a tenersi sulla scia della Juventus bloccata a Crotone, l’unico risultato davvero sorprendente della giornata, che è poi anche il solo minuscolo ma gigante vantaggio conquistato da una pretendente alla salvezza.

In un quarto d’ora la distanza tra Juventus e Napoli ha avuto il movimento della fisarmonica che accompagna le prime coraggiose cene all’aperto: dai 9 punti di distacco al 55’, quando i partenopei sono passati in svantaggio in casa con l’Udinese e la Juventus vinceva in Calabria, ai 4 del 70’, a rimonta napoletana conquistata e gol di Simy già depositato in videoteca, che renderanno lo scontro diretto del prossimo turno decisivo e appassionante.

È stata, ancora una volta, una giornata piena di gesti tecnici eclatanti anche se non sempre pragmatici, che ha reso difficile il compito di assemblare questa compilation senza sentirsi in colpa per aver trascurato qualcuno. Ma è stata anche e soprattutto l’ennesima dimostrazione che nel nostro campionato giocano una varietà di centravanti dal gioco ognuno peculiare, accomunati però dal trovarsi imprigionati in un corpo che non lascerebbe pensare sia possibile farci giocate del genere. Sono loro, i miei protagonisti della settimana.

Affrontiamo subito l’elefante nella stanza: la stanza è il mese di Aprile della Juventus, e l’elefante mima con la proboscide del gesto della rovesciata.

Quante probabilità ci sono, in un calendario che presenta, in successione sparsa, Real Madrid e Crotone, di mettere in conto di subire un gol con il gesto più banalmente spettacolare che si possa inscenare in un campo di calcio? La prima risposta che vi è venuta in mente, probabilmente, va raddoppiata per fare double-match con la realtà.

Sullo spiovente da sinistra tenuto vivo da Barberis con una torre poco presuntuosa, Trotta cerca la coordinazione per una volée da videogioco: ogni movimento rispetta i crismi della buona preparazione: conta i passi, pianta il piede d’appoggio ben saldo a terra e anche la rotazione sembra onorare con rispetto la dinamica del trabucco. Se l’impatto con il pallone fosse stato meno fallimentare probabilmente sarebbe stata quella di Trotta, la giocata memorabile. Invece, dal pallone sbucciato, nasce una situazione che imbandisce perfettamente la tavolata della gloria per Simy.

Nel gesto del nigeriano, anche se è una sbiciclettata pregevolissima, non c’è l’eleganza aliena della rovesciata di Cristiano Ronaldo: il corpo di Simy sembra rattrappirsi anziché estendersi in tutto il suo splendore vitruviano. Il coefficiente di prevedibilità degli esiti è indirettamente proporzionale al tasso di mani portate alla testa dai giocatori della Juventus.

Da poco superato il ventesimo minuto, a Cheick Diabaté capita l’opportunità di continuare ad alimentare il piccolo e intimo culto fondato nelle ultime settimane: cosa avremmo dovuto cominciare a pensare se avesse segnato un’altra rete a cucchiaio? Che la lista di pazzoidi primati che avevamo prefigurato potesse davvero finire per risultare plausibile? Sarebbe stato l’ottavo gol su tredici tiri, un risultato impronosticabile e per di più ammantato da un sottile velo di malinconia perché ottenuto con una maglia che sta lentamente dissolvendosi dalla Serie A come le foto del passato che Marty McFly tiene nella tasca del giubbotto.

Dietro a un grande numero nove c’è sempre un altrettanto grande nove e mezzo: in questo caso è Brignola, la vera sorpresa del campionato dei sanniti, uno dei diciottenni più presenti nei cinque massimi campionati d’Europa e dei più entusiasmanti da veder giocare nella nostra Serie A.

Quando Viola riceve palla da Puggioni, stringendo dall’esterno verso il centro, Brignola compie uno dei suoi movimenti più caratteristici: si piazza tra le linee di centrocampo e difesa dell’Atalanta, e sull’assalto altissimo di Masiello con un tocco leggero di sinistro, il suo piede prediletto, manda il difensore fuori giri. Poi si invola con uno dei suoi scatti da fermo più connotanti verso la porta avversaria, e dopo tre tocchi serve, con un filtrante molto sensibile, la palla della consacrazione a Cheick, che farebbe pure un movimento intelligente a stringere, ma che tentenna troppo. Poco più tardi Brignola ci proverà da solo, in slalom contro tutta la difesa orobica: una ragione in più per spingerci a osservarlo in questi ultimi scampoli di Serie A, e sperare di averlo ancora protagonista, l’anno prossimo, e di poterci abbeverare alla fonte della sua dribblomania.

Nonostante il suo fisico da vascello, Duván Zapata ci ha dimostrato di saper scivolare sulle onde del campo come una fregata, agile e al contempo dotata di una quantità di bocche da fuoco sufficienti a demolire intere flotte avversarie. Nella partita scorbutica contro il Bologna Giampaolo l’ha schierato nell’ultima mezz’ora, preferendogli Caprari dall’inizio. In trenta minuti Zapata ha perso - a fronte dello stesso numero di sfide intraprese da Caprari nel resto del match - pochissimi duelli contro gli avversari, mettendo in seria difficoltà Helander; e negli ultimi cinque minuti di partita si è piazzato al centro dell’area in una maniera che non ci ha abituato a vedere, preferendo normalmente partire da una posizione leggermente arretrata per esercitare al massimo della potenzialità i suoi scatti: e al centro dell’area ha giocato più come una corazzata che come un incrociatore, difendendo palloni vaganti con l’uso possente del corpo.

Nella maniera in cui protegge il possesso tenendo col fisico a distanza il difensore, prima di tentare una girata per certi versi goffa e sfortunata che si stampa sul palo, c’è un aspetto di Zapata inedito, che ci riconcilia però con il mondo, come quando il mandarino che credevamo destinato a non fiorire torna a sbocciare in giardino. Da un movimento simile nascerà il gol nei minuti di recupero, e mi sembra una dimostrazione di come la biodiversità dei nostri centravanti sia destinata a mutare, di giornata in giornata, sconvolgendoci la geografia dei “nove” come se vivessimo a loop nel 1992.

Nell’epica del centravanti, l’antieroe per eccellenza è il portiere: mi sembrava doveroso tributare una delle giocate a chi di mestiere deve strozzare le grida in gola, obbligato a frapporre alla giocata che punta al gol, un gesto che punta alla direzione diametralmente opposta, la sua negazione.

Gianluigi Donnarumma ha compiuto una parata eccezionale al novantesimo, e se vi darà l’impressione di essere un déja-vu, per certi versi lo è. Il contesto è più o meno simile, perché si tratta sempre di una parata che evita una sconfitta, quindi se vogliamo ancora più onorevole di una parata che salva una vittoria. La preziosità del gesto sta nella saldezza di pensiero con cui Donnarumma sbroglia una situazione dominata dal caos cosmico, che si annida e si appiccica a ogni singolo gesto dell’azione, dai dribbling di Ansaldi all’accartocciamento di Ljajic, che scivola proprio mentre sta tirando e per questo riesce a ottenere una conclusione ancora più velenosa e imprevedibile.

Le dita di Donnarumma salvano ancora una volta il Milan. Con quelle stesse dita, probabilmente, il portiere interromperà a metà “I got you babe” proprio mentre lo speaker starà dicendo «In piedi campeggiatori, camperisti e campanari!».

Da quando è tornato in campo, dopo l’infortunio al legamento crociato che lo ha tenuto lontano quattro mesi, ad Arkadiusz Milik è stato chiesto di salvare l'attacco del Napoli più volte. Anche se non scendeva in campo da titolare dalla prima di campionato, negli scampoli di partita in cui Sarri lo ha schierato è stato essenzialmente per affidarsi a lui, come si fa coi santi o coi capipopolo, per cercare di affilare la punta di una matita che sembrava non sapere più come si scrivesse la parola gol. Le due reti (e quella negata dalla parata strepitosa di Donnarumma a San Siro) sembrano dare ragione a Sarri.

Però i pregi di Milik non stanno, non sono mai stati, nella prolificità: semmai nella sua pragmaticità da realpolitik, un aspetto che è evidente da sempre, almeno da Euro 2016 che è poi dove De Laurentiis se ne è innamorato, e nella versatilità.

Il contributo di Milik alla causa della biodiversità dei centravanti della Serie A, ieri sera, è tutto in questo bel controllo volante di tacco: un gesto tecnicamente apprezzabile, ma ancor di più per come si inserisce armoniosamente nella costruzione della manovra del Napoli, in quel momento non ancora risucchiato dall’ansia di dover recuperare uno svantaggio mortificante per le ambizioni di Scudetto. Zielinski appoggia a Albiol, chiamandolo all’impostazione. Il centrale spagnolo lancia lungo, sulla fascia destra, una porzione di campo in cui Milik, se fosse un prototipo di centravanti poco associativo, non si dovrebbe trovare mai. E invece là compare, per fare di sponda con il tacco, e apre a Zielinski la possibilità di sventagliare su Insigne, mentre Callejón - come da copione - attacca la profondità in attesa del cross.

L’azione finirà con un nulla di fatto, ma vedere Milik muoversi incontro al pallone con tanta grazia riconcilia i napoletani con la consistenza soffice dei sogni ancor di più del momento in cui lo stesso Milik segnerà il gol del momentaneo 3-2.

Edin Dzeko, ieri sera, ha disputato la sua centesima partita in Serie A, un campionato in cui ha già segnato 51 reti, di fatto una ogni due partite. Una statistica che serve a ricordarci la dimensione di un grandissimo realizzatore che è diventato centrale nell’assetto della Roma di Di Francesco, però, non solo per questo aspetto del suo gioco - risultato comunque decisivo nel primo trimestre giallorosso del 2018 -  quanto per la maniera in cui sa farsi perno d’appoggio del tagadà della manovra giallorossa.

Pur senza raggiungere le vette di dominio assoluto, che gli hanno permesso di fare la parte del re e della regina nella partita di scacchi perfetta contro il Barcellona, anche con il Genoa il centravanti bosniaco ha dato ampio sfoggio della sua capacità di mettere la tecnica eccelsa a disposizione della squadra abbassando il baricentro del suo gioco. Sono stato indeciso fino all’ultimo se inserire in questo pezzo il movimento in profondità che fa al trentottessimo, quando addomestica con l’esterno sinistro una bella verticalizzazione, gira su se stesso disorientando il marcatore e appoggia, con la stessa parte del piede con cui ha effettuato il primo controllo, ma stavolta fronte alla porta, il pallone all’accorrente Florenzi che calcia fuori. Oppure il ripiegamento con cui, all’altezza del centrocampo, va incontro al suggerimento di Kolarov. Con l’esterno del tacco del destro si porta la palla avanti: ingabbiato da due centrocampisti genoani, e con la linea di passaggio impallata dall’arbitro, Dzeko si trasforma nel primo ballerino del Bolscioj,vorticando su se stesso in una vertigine che spalanca un contropiede amministrato con troppa sufficienza da Cengiz e Gerson. Quanti enganche che fanno esattamente quello che un enganche fa avete mai visto, con la maglia numero 9 sulle spalle? E quanti primi ballerini del Bolscioj con il fisico di Dzeko?