Ancelotti sposa Napoli: "Qui per restare a lungo. La Juve non è inarrivabile"

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Carlo Ancelotti ha raccontato i suoi modelli in panchina e i progetti alla guida del Napoli

L'allenatore del Napoli si racconta a 360 gradi alla Gazzetta dello Sport: dai suoi modelli al futuro: "Un ruolo da manager all'inglese nel Napoli? Mi piacerebbe molto. Forse qui ci sono le caratteristiche adatte”. Sulla corsa scudetto: "La Juventus non è inarrivabile"

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Capacità di vincere e gestire il gruppo, abbinata a una costante serenità. Il ritratto di Carlo Ancelotti sulle colonne della Gazzetta dello Sport prende spunto da questo esame ai raggi X dell'allenatore di Reggiolo, tornato in Italia in estate per accettare la sfida del Napoli: "Credo che ai giocatori vada trasmessa soprattutto convinzione, fiducia. Però qualche volta devi stimolarli dal punto di vista dell'attenzione, della concentrazione". Merito di un'esperienza ultraquarantennale tra campo e panchina, con due insegnati speciali. Suo papà, "un contadino, sapeva dominare le conseguenze delle gelate sul raccolto e io sono cresciuto guardando il suo rapporto con la terra, le stagioni, gli animali", e Nils Liedholm: "L'opposto dello stress - racconta Ancelotti - una volta al Flaminio i tifosi della Lazio ci hanno ammazzato di botte, ci tiravano le pigne sul pullman. Noi eravamo per terra sanguinanti, lui è salito sul pullman e ha detto: "Ragazzi tutto bene? Cosa succede?". Da lui ho imparato la serenità. L'arrabbiatura che fa più effetto è sicuramente quella che viene dall'emozione, che non è controllabile. Poi c'è quella che viene dalla testa, quindi controllata. Un altro episodio? Una volta eravamo in ritiro a Brunico e un tifoso la mattina, con attitudine da delatore, spiffera indignato al mister che c' erano stati giocatori al bar fino all'una di notte. Lui lo guarda e dice: Strano, ho detto a tutti di rientrare alle due”.

Pressione mediatica e intelligenza

Lo stress, se gestito, è una risorsa. Ne è certo, Ancelotti: C'è la partita che sento di più e quella che sento di meno - racconta - lo stress ci deve essere, ma va gestito e controllato. Un allenatore deve anche avere la possibilità di staccare, di pensare ad altro. Non puoi dedicare 24 ore del tuo tempo alla partita, ti devi prendere il tuo tempo. Io me lo prendo. Quando vado a casa non è che sto a rimuginare sulle tattiche. Sacchi ha innovato non solo il gioco, portando il pressing, ma soprattutto l'organizzazione, la metodologia del lavoro, però non immagino due persone più diverse di lui e Liedholm”. In campo, Ancelotti sapeva dosare energie e forze, come si conviene a un buon centrocampista. Ora che siede in panchina, in un calciatore continua a privilegiare l'intelligenza: “Conta tantissimo, il solo talento non è sufficiente – spiega - dopo, naturalmente, c' è la genetica, che è il talento e anche il fisico. È una combinazione. Alla stazza non do molta importanza. I giocatori lenti, per esempio, continuano a giocare a calcio, perché a calcio possono giocare tutti. Il giocatore lento, quello veloce, il giocatore basso, il giocatore alto. E' lo sport di tutti”. La stazza non conta: Mertens e Insigne, che oggi Ancelotti allena a Napoli, ne sono la dimostrazione sul campo: “Puoi giocare ad alto livello solo se hai una forte personalità. Come Modric che, fisicamente, anche lui è un po' esile. Buffon, ad esempio, è un coraggioso incosciente, nel senso buono della parola”.

Napoli e i primi passi

“Mi piace l' atmosfera che si vive qui, l' ambiente. Napoli accoglie, non respinge”. Ancelotti arriva dalla Bassa Pianura Padana (“Bernardo Bertolucci è stato figlio di quella parte d' Italia e ha fatto un film favoloso che la racconta, Novecento”), ma l'empatia con la città è palpabile: “Tutti pensano che Napoli sia sempre un grande, esuberante, putiferio. Non è così. A me piace frequentare la città, vado per strada, nei ristoranti e nessuno mi ha mai disturbato, sono molto rispettosi. Forse perché mi vedono un po' vecchio”. Ancelotti non ha dubbi su quella che è diventata casa sua da quattro mesi e mezzo a questa parte. Dove sta coltivando un'idea di calcio legata (anche) a un concetto ereditato da Arrigo Sacchi: “Mi diceva che ci sono due modi di convincere le persone: per persuasione o per percussione. Io preferisco la persuasione. Non faccio mai una cosa se i giocatori non sono convinti di farla”. Lo stesso metodo adottato per entrare lentamente nelle pieghe tattiche del nuovo Napoli, convertito dal 4-3-3 al 4-4-2: “La prima volta che sono venuto qui – ricorda Ancelotti - ho parlato con la società, ho cercato di capire i loro progetti. La squadra già la conoscevo e mi piaceva. Dopo, piano piano, ho iniziato il processo senza stravolgere quello che già facevano molto bene con Sarri. Il Napoli è una squadra che per tre anni ha fatto un determinato e rigoroso lavoro e questo bagaglio si riconosce molto bene a livello di sapienza tattica: i ragazzi sono molto bravi. Dopo, piano piano, cerchiamo insieme di modificare il sistema di gioco”. Nel solco del manager all'inglese: “Un progetto del genere qui? Mi piacerebbe molto. Forse qui ci sono le caratteristiche adatte”.

Stadi e insulti

Polemica sempre, purtroppo, attuale nel calcio italiano. Tra offese di natura territoriale e di marca razzista, Ancelotti non fa distinzioni: “Io non voglio fare un discorso solo sul Napoli – spiega - voglio parlare degli stadi italiani e della lotta contro ogni intolleranza. Una cosa sono i cori e gli striscioni divertenti, altro le manifestazioni di odio e la demonizzazione di città, colori della pelle, appartenenze etniche o religiose. E' un malcostume che deve finire. Se ci sono quei cori si devono attuare delle procedure: la segnalazione del capitano all'arbitro, l' annuncio con gli altoparlanti e, se nulla serve, la sospensione della partita. Serve far capire che si fa sul serio, che non si finge di essere sordi”.

Dove può arrivare il Napoli?

In corsa per il passaggio agli ottavi di Champions League, secondo in classifica alle spalle della Juventus. Per Ancelotti, il suo Napoli ha il miglior centrocampo d'Italia: "Ne sono convinto. Allan, Fabiàn Ruiz, Hamsik, Diawara, Zielinski, Ounas. Sei centrocampisti di alto livello. Poi abbiamo Koulibaly, uno dei migliori difensori del mondo con Sergio Ramos e Varane. Questa squadra ha tante potenzialità e lo ha dimostrato nel girone di Champions, che era difficilissimo: dobbiamo lavorare sempre a ritmo alto”. La Juventus non è inarrivabile, sostiene: “No, è molto forte, molto continua, però inarrivabile no. Nella mia esperienza di calcio non ho ancora trovato squadre imbattibili. Certo, per stare al passo con la Juve, devi fare miracoli”. Dici Juventus, e ricordi lo scudetto perso nel 2000 a Perugia: “Fu un duro colpo, poteva essere la prima vittoria e invece da lì è iniziata l' etichetta di eterno secondo”.

I ricordi tra Inter e Roma

Non tutti sanno che Ancelotti da piccolino seguiva con affetto l'Inter: "Mio cugino, che era andato a lavorare a Milano dal paese, mi aveva portato la maglia dell'Inter quando avevo sei anni. La prima volta che ho visto l'Inter era il 1970, vennero a giocare a Mantova e mio papà mi portò ma non abbiamo trovato il biglietto. Mi disse "Torniamo a casa" e io "Ma che torniamo a casa! Stiamo qua". Mi sono messo davanti ad una porta dello stadio e ho cominciato a piangere a dirotto. Avevo undici anni e alla fine del primo tempo un custode mi ha detto "Se smetti ti faccio entrare". In quella partita l'Inter vinse 6 a 1, ma erano 0-0 al 45'. Mi sono visto tutti i gol. Mio papà mi aspettava fuori". Inatteso, come il finale della sua prima partita all'Olimpico con la maglia della Roma. Anno 1979: "Liedholm, appena arrivato, mi fa giocare. Dopo un minuto Bruno Conti va al cross da sinistra, mette la palla sul secondo palo, io sono dentro l' area, Pruzzo la schiaccia. Albertosi la para e la mette lì, ad un metro da me. Mi sono detto "Adesso faccio gol". Era un minuto che giocavo. Ho pensato, lucidamente: "Vado sotto la curva, mi tolgo la maglietta e mi butto per terra". Tiro in porta e Albertosi, nel tirarsi su, la prende con la testa e la butta fuori. Quella partita è finita 0 a 0. Una vergogna”.

Ancelotti a 360 gradi, con un punto fermo: "Il calcio dovrebbe essere un gioco. Ma per questo Paese è un diversivo. A Napoli rappresenta anche una rivalsa, una sorta di riscatto dal senso di abbandono che questa città ha legittimamente introiettato nei secoli. Per me rimane un gioco. Bello, emozionante. Ancora mi diverto, ancora lo faccio con passione".