20 anni fa il Pallone d'Oro di Shevchenko, il robot venuto dall'est

Il colonnello Valerij Vasil'evic Lobanovskij non aveva allenato un calciatore. Il colonnello Valerij Vasil'evic Lobanovskij aveva assemblato una macchina perfetta, un robot plasmato a immagine e somiglianza del gol. Se i due occhi erano sfere di ghiaccio, l'area di rigore era un'immensa landa innevata. La porta avversaria come una ragione di vita. Vent'anni esatti fa Shevchenko vinceva il Pallone d'Oro e volava a Kiev a portarlo accanto alla tomba del colonnello, quasi un padre. Laconico e ieratico, vedeva i suoi giocatori come pezzi degli scacchi, il campo, ovviamente, come una scacchiera. Credeva nell'indottrinamento pavloviano su schemi e meccanismi di gioco, se un giocatore azzardava un "io penso che…", lui replicava con uno sguardo in tralice da attore anni Cinquanta: "Non pensare, penso io per te. Tu gioca". Il colonnello Valerij Vasil'evic Lobanovskij - dove Vasil'evic era l'ossequiosa forma di rispetto del patronimico - era una figura in grado di regalare l'eternità sportiva, come quei rari santoni della panchina che circondano di luce chiunque gli stia intorno. E così accadde con Andriy Shevchenko, il robot venuto dall'est per conquistare Milano, l'Italia, l'Europa e il mondo. La cibernetica del pallone Non è un caso che anche la parola robot arrivi dall'est: robota, che significava lavoro. Perché l'Andriy Shevchenko che vince il suo Pallone d'Oro il 13 dicembre del 2004 viene dalla cultura della fatica, dagli allenamenti al lago Verbne, vicino a Obolon - distretto di Kiev - un anello da dieci chilometri di corsa, ma anche dalla lotta libera, dallo sci di fondo e dall'hockey quando il lago ghiacciava, rigorosamente in maglietta a maniche corte. Un physique du rôle da leggi della robotica di Asimov. Poi vennero i massacranti allenamenti del colonnello. Lobanovskij aveva servito la Polizia del ministero dell'Interno sovietico - raccontava Sheva nell'autobiografia Forza gentile - riempiva tabelle e spingeva i suoi uomini oltre il limite. L'aerobica, i test, la famosa salita della morte: un tracciato con pendenza del sedici percento e un numero imprecisato di ripetute dove praticamente chiunque vomitava. Ma non Andriy. Il pioniere Lobanovskij fu anche il primo a usare un computer applicato al mondo del pallone, quando i calcolatori erano appena usciti dalla fase di immensi armadi a sei ante capaci di riempire una stanza. Chiamò al suo fianco il dottor Anatolij Zelentsov dell'Istituto di scienze fisiche di Dnipropetrovsk e, con lui, sviluppò un approccio scientifico e sistematico al calcio. Lobanovskij aveva studiato cibernetica, un campo il cui concetto chiave è la circolarità. Lui e Zelentsov - spiegavano Chris Anderson e David Sally in Tutti i numeri del calcio - consideravano una partita di pallone l'interazione tra due sottosistemi di undici elementi , il cui risultato dipendeva da quale sottosistema avesse meno difetti e la migliore e più efficiente integrazione. La polmonite di Galliani Shevchenko, allora, non poteva che diventare Shevchenko. L'uomo da Pallone d'Oro, dello scambio di sguardi come un primissimo piano dei western di Sergio Leone nella finale di Manchester contro la Juventus, quando poi la sua medaglia finì sempre sulla tomba di Lobanovskij a Kiev. Italo Galbiati ne scrive il primo rapporto, Ariedo Braida lo va a trovare, poi anche Galliani lo osserva da vicino in un freddissimo Dinamo Kiev-Panathinaikos dei gironi di Champions del novembre 1998, ma l'occhio del Condor ante litteram cade sul gemello del gol Rebrov, anche perché Sheva, quella partita, la gioca male. Galliani è perplesso e chiede preoccupato a Braida se - testuale - "sia Shevchenko quello buono… Non è che facciamo ancora come con Dugarry e Zidane e poi il presidente ci prende in giro per tutta la vita?". Ma Ariedo Braida ha il suo mantra: 'vedere le qualità, non se gioca bene o male'. Il Milan lo compra. E Galliani torna a casa con la polmonite. Non essere galacticos L'altro filo rosso, anzi rossonero, lo lega a Silvio Berlusconi. Suo campione per eccellenza: il compleanno lo stesso giorno, Berlusconi padrino del figlio Jordan. La prima estate italiana di Sheva passata in Sardegna nella sua villa per la troppa afa che abbracciava Milanello come una coperta troppo pesante. Quando il padre di Sheva si ammalò, fu proprio Berlusconi a mettere a sua disposizione i suoi medici di fiducia per il trapianto al cuore. Andriy al Milan inizia con la 10, poi Ibrahim Ba gli cede la 7. Diventerà un simbolo. Prima della Champions del 2003 - dove Sheva è l'uomo copertina - e prima del 2003/04 dove il Milan di Ancelotti vince lo scudetto con 29 timbri stagionali, l'ucraino dai modi gentili è a un passo dal Real Madrid di Florentino Perez che sta studiando una nuova strategia di brand: chiamarli galacticos. Essere galacticos. Se Luis Figo dal Barcellona era stato il primo status symbol del migliore tra i migliori, il patron del Madrid ha deciso che Shevchenko dev'essere il secondo. Il 23 maggio del 2001, a Palazzo Marino, le tovaglie e le posate sono quelle d'eccellenza: c'è il pranzo ufficiale della finale di Champions di San Siro tra Bayern Monaco e Valencia; e ci sono anche Galliani e Perez. Il presidentissimo blancos chiede Sheva, "altrimenti devo saltare il pisolino post pranzo, andare a Torino, e comprare Zidane alla Juventus". Berlusconi è categorico e risponde nell'attimo di un controllo e tiro in porta: Sheva non si muove. Il resto è storia. Oggi Shevchenko viaggia per l'Ucraina devastata dalla guerra con quel Pallone d'Oro vinto al Milan, per restituire una speranza, far brillare gli occhi dei bimbi davanti a un oggetto magico e luminoso. Per sognare. Perché anche un robot, di fronte a tutto questo, si riscopre meravigliosamente umano e meravigliosamente dolce.

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Marco Salami