A Casarano il calcio è tornato. Filograna: “Siamo ambiziosi, vogliamo vincere e divertire"

Se dici Filograna, a Casarano sanno tutti cosa significhi. È una famiglia che ha fatto la storia di questa piccola cittadina pugliese e che tra gli anni Ottanta e Novanta ha fatto sognare anche con il calcio. Dopo la crisi del Duemila, il Casarano ha vissuto momenti molto difficili: dal paradiso dei piani alti della C, all’inferno della D e dell’Eccellenza. Ora è tornato in Lega Pro e dopo pochi mesi si trova nelle posizioni nobili della classifica del Girone C. Merito del caso? Forse. Ma sarebbe riduttivo. Anche perché a gestire il club è tornato un Filograna, Antonio Filograna Sergio. Che sogna davvero in grande. Cominciamo da quella che è la sua storia: suo zio, Antonio, lo storico capitano d’industria, l’ha adottata. Ci spiega meglio? “Negli anni Sessanta usava essere parte di una famiglia allargata. Io sono sempre cresciuto con i miei genitori e i miei zii: essendo il maggiore, spesso di fatto vivevo con loro. Quando avevo tre anni, mi sono trasferito proprio dai miei zii in pianta stabile e sono stato adottato: ho mantenuto il mio cognome, Sergio, fino alla maggiore età. Poi sono diventato Filograna a tutti gli effetti. Mio padre in realtà si chiamava Adelchi: era andato a vivere in Belgio da mio nonno che faceva il minatore, ma poi era tornato e si era messo in società con i miei zii, fino a quando ha aperto a inizio anni Ottanta la sua attività” Quella della famiglia Filograna è invece sempre rimasta legata alla produzione di scarpe? “Esatto. La vecchia azienda si chiamava ‘Filanto’ ed era la più grande ditta di calzature di tutta la Puglia. Producevamo fino a 12 milioni di paia di scarpe all’anno, avevamo tremila dipendenti. A poco a poco, però, il mondo commerciale è cambiato: è sparito dall’Italia, molte opportunità sono venute meno. Così poco tempo prima rispetto a quando mio zio è venuto a mancare, nel 2011, abbiamo ristrutturato tutto e siamo ripartiti da zero, creando la Leo Shoes e puntando sul mercato del lusso. Collaboriamo con 25 brand, la nostra azienda dà lavoro a circa 1500 persone” Un’esposizione importante, che non vi ha evitato dei grossi rischi. Come il rapimento di suo zio. “Un’esperienza terribile. Era il 13 novembre 1980, era già presidente del Casarano, che quell’anno aveva vinto il campionato e giocava in C1. Venne pagato un riscatto di tre miliardi e mezzo di lire. Il rilascio avvenne il 18 giugno 1981 a Sesso, una frazione di Reggio Emilia: 215 giorni di rapimento in cui ha vissuto in tenda, tra tutte le difficoltà. Ricordo ancora i suoi incubi, le urla in piena notte: si riprese a poco a poco” Ecco, il calcio. È raro vedere una nuova proprietà familiare: capiamo il legame con il Casarano, ma i soldi sono sempre i soldi. Quindi, perché gettarsi in un’impresa come questa? “La famiglia Filograna è uscita dalla presidenza con la retrocessione nel 1998 dalla C1 alla C2. Mio zio aveva deciso di cedere gratuitamente la società ad altri imprenditori. Per vent’anni ne siamo rimasti fuori, io non sono nemmeno mai andato allo stadio che si trova a 300 metri da casa mia. Nel 2017 alcuni amici mi chiesero di dare una mano al club, che continuava a vivacchiare. L’ho fatto prima come sponsor, poi come main sponsor. L’anno scorso ho deciso di scendere in campo: da qualche anno si respirava di nuovo l’ambizione di tornare su palcoscenici più importanti della Serie D e ho voluto tentare l’impresa io. Dal 2024 ho rilevato la società” E siete saliti subito in Serie C. Ma, ribadiamo, perché tornare? “Non è tanto una questione di affari. Penso sinceramente che nel calcio si entri un po’ per pazzia. Dentro questa avventura c’è sicuramente questa componente e poi un aspetto sociale. La nostra famiglia è legata a questa terra, io personalmente amo molto questa città. Contribuire allo sviluppo imprenditoriale ed economico di Casarano è come una missione: ti gratifica. E non si può quantificare. Ho già vissuto una seconda opportunità di vita nel 2011, con l’attività industriale di Leo Shoes, e ho intravisto nello sport un’occasione di ulteriore sviluppo della mia città. Non me la sono lasciata scappare via: sono entrato con attenzione e moderazione. Ma anche con molta ambizione” Ha mai pensato di voler entrare in politica? “No, mai. Non è nei miei piani. Sono vicepresidente di Confindustria Lecce, faccio solo politica industriale. Vedo già molto poco mia moglie e i miei quattro figli: non si deve avere la smania di voler fare tutto” Come ha pianificato il suo ingresso nel calcio? “Una crescita graduale, come deve sempre essere. A fare voli pindarici si fa presto, ma le ricadute sono altrettanto veloci: viviamo in una realtà piccola, di ventimila abitanti. Non possiamo paragonarci alle grosse città, ma allo stesso tempo non dobbiamo porci obiettivi limitanti. Bisogna programmare tenendo conto della sostenibilità economica. Un modello da tenere in considerazione è quello di De Laurentiis, che ha dimostrato di poter fare veramente business con il calcio. Nel giorno del mio insediamento, ho subito fatto capire che la premessa iniziale non fosse la squadra, ma l’organizzazione della società. Servivano le persone professionali giuste e una struttura seria, come pretendeva la Serie D prima e la Lega Pro ora. Stiamo preparando una serie di operazioni di marketing importanti e abbiamo contribuito ad ammodernare lo stadio, che resta di proprietà comunale: è piccolo, ma secondo me è anche un gioiello. Ci sono poco meno di 4500 posti a sedere. Una volta me lo ricordo con quasi 10mila spettatori. Ma era un’altra epoca…” La citiamo: “Le figure giuste”. Una è stata scelta a sorpresa: a dicembre l’anno scorso venne esonerato a sorpresa Laterza e ingaggiato il 41enne Vito Di Bari. Con lui avete conquistato la promozione e ora in Lega Pro siete tra i primi. Come è nata questa intuizione? “Si è sempre raccontato che fosse tutta farina del mio sacco. Me ne sono assunto di certo la responsabilità. Ma il merito va al mio ds, Antonio Obiettivo. Non ero contento dei primi mesi del campionato. Come ho detto, viviamo di grande ambizione: eravamo primi in classifica, ma la sconfitta contro l’Andria ci aveva fatti scivolare al secondo posto. Più che i punti, mi preoccupava il gioco, la mancanza di spettacolo. Obiettivo mi fece il nome di Di Bari: lo invitai in azienda per conoscerlo, ma senza alcuna pretesa. Mi disse questa frase, che ricordo ancora: ‘Presidente, sono ambizioso’ mi disse, ‘Voglio arrivare in alto’. Non me l’aspettavo. Lo salutai, ma dopo mezz’ora lo richiamai per fargli firmare il contratto. Mi fidai di quell’impressione: non fu facile farlo digerire a tutti, ma a posteriori è andata bene” E adesso in Lega Pro siete in alto. Puntate solo alla salvezza? “Noi siamo ambiziosi, l’ho detto e lo ripeto. Come imprenditori dobbiamo capire le situazioni e sapere come muoverci di conseguenza. Vogliamo divertirci e divertire, creare davvero un corpo unico tra società, città e tifosi. Senza divisioni. Era la prerogativa dell’anno scorso, è rimasta anche quest’anno: siamo tornati nel calcio che conta ed è tanto diverso da quello degli anni Ottanta che ho conosciuto io. Ci sono le partite in diretta, ci sono i social: la C è molto seguita, è sotto i riflettori. Abbiamo cercato di avere la squadra pronta già da luglio, proprio per essere concreti. Se potremo dare fastidio in alto, lo faremo. Ma non dobbiamo avere ansia da prestazione. L’entusiasmo è tutto, o non mi sarei imbarcato in questa avventura” Da presidente, come vive il calciomercato? “Ho due fedeli collaboratori e faccio fare principalmente a loro. Uno è il già citato Obiettivo, l’altro è Fulvio Navone, che qui a Casarano è stato una bandiera ed è, oltre che un collaboratore eccezionale, davvero un amico. Però l’ultima parola spetta a me: ogni giocatore fa un colloquio con me e dopo decidiamo se ingaggiarlo. Per rendere la vita più semplice a chi viene da fuori, ho messo a disposizione una mia struttura come convitto. Si chiama ‘La casa dell’atleta’: è a disposizione dei giovani o chi non può vivere con la famiglia. Poi, sempre con i miei collaboratori, abbiamo iniziato a pianificare una serie di investimenti sul settore giovanile, che è stato ricostruito da zero l’anno scorso. A me il calcio piace vederlo, ma non riesco a viverlo tutti i giorni. Quello è compito dell’allenatore e dei giocatori: alla fine le partite le giocano loro. Noi le organizziamo, al massimo” Ma non ha mai temuto il confronto con suo zio? “Faccio questa premessa: lo zio è rimasto ‘zio’ fino a quando è mancato. Dopo l’ho sempre chiamato ‘papà’. E sono certo che non avrebbe fatto paragoni, anzi. Per me essere presidente del Casarano è motivo di grande orgoglio: come azienda calcistica e come azienda di calzature abbiamo vissuti anni molto intensi. Abbiamo volato, siamo caduti, ci siamo rialzati. Un confronto con quell’epoca, con quell’Italia, è impossibile. A tutti i livelli di analisi. Come per la Leo Shoes, anche nel calcio abbiamo deciso di ricominciare da capo, facendo squadra e provando a dare un nuovo impulso. Il calcio è sempre più legato ai fondi: sono fondamentali per l’ingresso di capitali, certo, ma si è persa quella natura romantica, quel legame reale tra le società e i loro tifosi. Da questo punto di vista, resto molto all’antica: voglio ricreare quell’atmosfera, rivivere quella passione. Non con timore di quello che è stato, ma con la curiosità di quello che sarà. L’ho detto all’inizio: per entrare nel calcio ci vuole una certa dose di pazzia. E me la sto vivendo tutta”

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Valentino Della Casa