E' l'Inter "dei vecchi"? Ha il miglior talent scout d'Italia

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TALENTI/3. Pierluigi Casiraghi, che portò in nerazzurro i giovanissimi Balotelli, Martins e Pandev, ci svela i trucchi del mestiere. Tra ricordi, rimpianti e corse contro il tempo e contro i colleghi di altri club. Come quella volta in Brasile...

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di Vanni Spinella

Ora che non vince più, quella che era una squadra "esperta" è diventata “l’Inter dei vecchi”. Il vero paradosso, però, si muove dietro le quinte. Tra campetti sconosciuti ai più, tornei giovanili, partite tra ragazzini. Sì, perché alle spalle della squadra più vecchia (o più esperta, fate voi) del nostro campionato c'è quello che, a detta di molti, è il miglior talent scout italiano.
Pierluigi Casiraghi (soltanto omonimo dell’ex-giocatore di Juventus e Lazio) è l’osservatore che da diversi anni porta in nerazzurro giovani promesse scovate in giro per il mondo. Qualche esempio?
“Martins, Pandev, Balotelli, Andreolli, Meggiorini, Biabiany. Per citare quelli che tutti ricordano più facilmente, perché hanno avuto successo. Dimenticandosi, ingiustamente, di tutti gli altri”.

Partiamo allora da quelli che si sono persi, e che secondo lei avevano le qualità per farcela.
"Mi viene in mente Belaid. Lui all’Inter arrivò anche in prima squadra, poi però non riuscì ad affermarsi. È finito in Repubblica Ceca, dove ha vinto due campionati con lo Slavia Praga e ha giocato anche in Champions.
Un altro che aveva buone qualità è Maaroufi, che ora gioca a Casablanca. Mancini l’aveva fatto debuttare in Serie A"

Quale crede che sia il motivo per cui non sono riusciti a sfondare nel nostro calcio?
"A livello di settore giovanile vedi subito quando un ragazzo ha della qualità tecniche. Poi, però, quando dalla Primavera si passa alla prima squadra, c’è il gradino più alto da superare. In quel passaggio conta più l’aspetto caratteriale che quello tecnico. Avere carattere, saper soffrire, riuscire a condividere lo spogliatoio con campioni o giocatori più anziani, saper convivere con gli altri. Esattamente come nel mondo del lavoro"

In che senso?
"Ci sono tanti che erano bravissimi a scuola e poi, finiti gli studi, non riescono a confermare quelle qualità nel mondo del lavoro. E tanti altri, invece, che a scuola non erano delle cime e poi si affermano nel lavoro. Spesso è questione di carattere"

Che doti deve avere un giovane per colpirla?
"Non potendolo valutare caratterialmente, bisogna basarsi su quello che si vede sul campo. La qualità salta subito all’occhio, per chi ne ha visti a migliaia. Per il resto, i criteri sono molto personali: c’è l’osservatore che si innamora della forza fisica, quello che privilegia la tecnica, altri che valutano la continuità…"

Una volta concluso l’affare, cosa succede?
"Il ragazzo passa nelle mani dell’allenatore, che si occupa di plasmarlo. L’osservatore cerca di fornire buon materiale su cui lavorare, poi spetta all’allenatore completare il processo. Per questo motivo deve esserci sintonia tra chi sceglie e chi plasma, altrimenti si rischia solo di buttare via soldi"

E che doti deve avere, invece, il buon osservatore?
"La capacità decisionale rapida, innanzitutto. Ho notato che oggi, rispetto a pochi anni fa, c’è una schiera numerosissima di osservatori su tutti i campi. Tutte le società vogliono sapere tutto di tutti. Ma molti non sono osservatori: sono più che altro fornitori di informazioni. Riempiono database, fanno monitoraggio a larghissimo raggio. Io preferisco avere meno uomini in giro per il mondo, ma andare a colpo sicuro e prendere il giocatore che mi ha colpito"

È un lavoro che non si fa più come una volta…
"Vero. La corsa al talento, poi, ha fatto abbassare l’età di selezione. Un tempo si osservavano ragazzi di 17-18 anni; oggi, per arrivare prima degli altri, si punta già sui quindicenni, ragazzini che non è possibile valutare bene"

I più criticati all’Inter sono proprio due giovani, Ricky Alvarez e Castaignos. Lei come li valuta?
"Bisogna dargli tempo, hanno qualità. Alvarez arriva da un campionato, quello argentino, totalmente diverso dal nostro. Lì si privilegia l’azione personale, con un calcio più lento. È normale che faccia un po’ di fatica. Castaignos invece ha fatto 15 gol in 30 partite, ma in un campionato con tre partite all’anno che contano davvero. In Italia, 15 gol è difficile farli anche in Serie B"

L’Udinese invece non sbaglia un colpo...
"Sì, ma bisogna fare una distinzione. L’Udinese non pesca quasi mai dei ragazzini da crescere nel proprio vivaio. Tanto che a livello di settore giovanile, Allievi o Primavera, non ha squadre che ottengono grandi risultati. Prendono giocatori di 19 o 20 anni, che hanno già fatto un percorso nei loro club: pronti per la prima squadra, già formati, da mettere in vetrina. Poi, certo, sono bravissimi a valorizzarli"

C’è un rimpianto nella sua lunga carriera?
"Lucas Piazon. Lo stavo seguendo quando era al San Paolo, e insieme a me, sui campi, c’erano solo altri due osservatori, tra cui quello del Chelsea, che se lo portò a casa. Di fronte al potere economico degli inglesi, noi italiani perdiamo in partenza. Offrono due o tre volte quello che offriamo noi, e poi la credibilità del nostro calcio è calata"

Una curiosità: chi era il terzo osservatore?
"Quello del Barcellona. È un amico, l’ho incontrato anche di recente a un torneo in Francia. Stavolta gliel’ho detto: ‘Ma cosa vai in giro a vedere, che ne avete metà di mille in casa! Perché non te ne resti a casa?’"

E lei invece cosa ci faceva in Francia?
"Questo non ve lo posso dire…"