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Il giorno in cui Gilles, morendo, è diventato immortale

Formula 1

Carlo Vanzini

Gilles Villeneuve - Ferrari 312T4 - GP Spagna 1979 - Circuito di Jarama. (Foto: Getty Images)

Il ritratto di Gilles Villeneuve, il piccolo canadese che ha fatto innamorare di sé milioni di tifosi, nei ricordi di chi quel terribile 8 maggio 1982 era bambino

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Mamma mi portava la pasta, io, appena tornato da scuola, ero seduto a capotavola, me lo ricordo come se fosse oggi, orgogliosamente posizionato al posto di papà, mentre papà, dopo avermi accompagnato a casa se ne era andato di là, nel suo studio per vedere o sentire alla radio, questo non lo so non gliel’ho mai chiesto come erano finite le prove del Gran Premio del Belgio. La televisione ed i mezzi di comunicazione erano rigorosamente vietati a tavola. 

Si viveva così, sapendo le cose quando era il momento di saperlo, non a getto continuo come oggi. Dovevo mangiare, era sempre già tardi, per fare qualsiasi cosa. Neanche il tempo di mettere in bocca la prima forchettata ed ecco papà ricomparire, incredulo anche lui, strano nell'avvicinarsi, ed a dirmi, "è morto Villeneuve".
In quel momento sono successe due cose: la prima, ho pianto come un bambino, lo ero, ma forse così non l’avevo mai fatto, se non quando era morto il mio nonno Luigi. La seconda, mi è crollato il mondo addosso perché ho capito, per la prima volta, che anche i supereroi non sono immortali, ma lo diventano morendo.

Ero tifoso di Piquet, perché mi piaceva più degli altri.  Villeneuve era tra gli altri. Certo più di altri, perché leggevo dei suoi strani viaggi in elicottero per andare dal principato a Maranello, seguendo l’autostrada per non perdersi, delle sue gare “clandestine”, con i record Maranello – Monaco da frantumare. Negli anni ’80 tutto ciò era da fighi, non da inchieste e processi social,  come lo erano i crazy canucks, così soprannominati i pazzi discesisti canadesi, per i quali stravedevo, per Steve Podborski in particolare e Villeneuve. Pensavo, rientrava anche lui nell’identità dei crazy canucks.

Aveva quel modo di guidare, di dare tutto, di soffrire e battersi oltre il limite della macchina. Già, il limite. Ricordo il Gran Premio di Monaco dell’anno prima, di quel maledetto sabato di Zolder. Piquet in pole e Villeneuve in  prima fila a 78 millesimi.
Piquet, con una Brabham giudicata da molti irregolare, se ne andava verso la vittoria, mentre Villeneuve, con una Ferrari inferiore al gruppo, veniva infilato da Jones e Patrese. Poi davanti tutti ritirati o con problemi. Da buon fanciullesco tifoso maledicevo l’uscita di Piquet e pensavo a quanto fosse fortunato Villeneuve, a ritrovarsi così, primo a Monaco.

Alla gara successiva, la stagione di Piquet sembrava essere diventata di colpo stregata. Altro incidente ed ecco davanti, un’altra volta, Villeneuve. Ancora lui, oh ma quanta fortuna ha, pensava la mia testolina da decenne. E si che quando giocavo con le macchinine e simulavo i Gran Premi era lui che andava sempre a sbattere non Nelson.

Beh quel giorno, invece, vedendo come resisteva agli attacchi del trenino dietro, guidato da Lafitte, per portare a casa il successo, con una rossa molto sbiadita, mi venne da tifare anche per lui. Andava via sul dritto con il super turbo Ferrari, ma poi che macchina inguidabile aveva? E sul misto lo risucchiavano.
Nessuno lo passava però. In fondo mi piaceva e mi piace stare dalla parte dei più deboli e in quel momento Gilles lo era, seppur primo.

Così come dopo il Gran Premio di San Marino 1982, quello prima della scomparsa. Seguivo la gara con un occhio chiuso ed uno aperto, perché Piquet da campione del mondo in carica era tristemente ancora a quota 0, ed in pista a Imola neanche c’era, visto il boicottaggio dei team inglesi. Ma poi occhi apertissimi per la bagarre tra Pironi e Villeneuve, due amici diventati di colpo rivali, finendo poi per odiarsi.
Urlavo per Gilles, che gliela facesse vedere a quel francese. Ci rimasi male alla fine e pensavo a quanto sarebbe stato aggressivo la gara successiva, troppo o fatalità, resterà un mistero racchiuso in quei fotogrammi che mancano.

Si ho pianto, tanto, da quel giorno, morendo è diventato immortale anche per me. Pensavo, vedendo le foto della sua famiglia, ai sui bambini, mi aveva colpito perché il maschietto aveva la mia età e lui perdeva non un pilota, ma il papà, ci pensavo. Quando quel maschietto, Jacques, è arrivato come un fulmine in Formula 1, beh non ho potuto far altro che, allora si, tifare per un Villeneuve, incondizionatamente.
Misteri della passione nell’incrocio delle emozioni.